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       "Il Cinquecentodelitti" di Giorgio Scerbanenco (Frassinelli) 
      Prefazione di Carlo Lucarelli  
       
      La seguente lettera a Giorgio Scerbanenco
      è apparsa su "Pulp" n . 21 settembre-ottobre
      1999.  
      La versione su "Il Cinquecentodelitti" è leggermente diversa. 
       
        
       
      Mordano, 19.07.1999  
       
      Gentile signor Scerbanenco, sono un suo affezionato
      lettore e le scrivo per dírle che mi sono
      piaciuti molto i suoi libri. Non li ho letti
      tutti, dal momento che la sua bibliografia
      sterminata conta quasi un centinaio di romanzi
      e un migliaio di racconti che vanno dal noir
      al rosa passando attraverso l'intimismo autobiografico
      e il giallo classico, ma quelli che ho letto
      mi hanno talmente colpito che sento il bisogno
      di scriverle questa lettera, scusandomi in
      anticipo del tempo che le farò perdere.  
      Mi ricordo che avevo quattordici anni quando
      lessi il suo primo libro. Era il 1974, lei
      era morto da cinque anni, ed era una domenica
      pomeriggio in cui avrei fatto qualunque cosa
      pur di non fare i compiti. L'alibi migliore
      era mettersi a leggere, ma nella libreria
      di mio nonno, da cui ero andato a pranzo,
      non c'era niente di decente. Poi, vedo quegli
      strani occhi che mi fissano obliqui e stilizzati
      dalla costola bianca di un Giallo Garzanti,
      appena sopra il titolo, I ragazzi del massacro. Lo sfilo, lo apro, leggo l'inizio: "La
      signorina Matilde Crescenzaghi fu Michele
      e Ada Pirelli, nubile, insegnava alla scuola
      serale Andrea e Maria Fustagni" e ci
      resto così così perché quel tono formale
      e precisino mi sembra una cosa da libro Cuore, ma il finale del prologo, "Meglio
      sarebbe stato che la classe fosse tenuta
      da un sergente maggiore della Legione Straniera,
      e non da lei, fragile, delicata signorina
      della piccola borghesia dell'Alta Italia",
      mi incuriosisce e volto pagina. "E'
      morta cinque minuti fa' disse la suora",
      un inizio classico da giallo, a cui segue
      una delle pagine più dure e crude che siano
      mai state scritte in un romanzo. Da quel
      momento non ho potuto mollare il libro, catturato,
      affascinato e sconvolto da una realtà che
      non conoscevo, da pieghe nascoste del cuore
      umano che non credevo neppure esistessero,
      da un mistero feroce, malinconico e disperato
      raccontato come non credevo fosse possibile,
      con quelle parole semplici, dirette e crude,
      apparentemente formali e precisine come quelle
      dell'inizio. Non ho fatto i compiti, sono
      andato male all'interrogazione e alla fine
      non mi sono neanche laureato, ma ho letto
      tutti i suoi romanzi simili a quello e sono
      diventato uno scrittore anch'io.  
      Sa qual è la cosa che più mi ha colpito nei
      suoi libri? Il coraggio. Tanti tipi di coraggio,
      ostinato, silenzioso e freddo, vagamente
      autoironico, come appare lei nelle fotografie,
      con quel suo sorriso sottile sotto a quel
      naso arcuato che sembra un becco. Il coraggio
      della contraddizione, per esempio. Il suo
      personaggio più noto, protagonista di quattro
      romanzi, è Duca Lamberti, ed è una contraddizione
      vivente. Appare per la prima volta nel marzo
      1966, in Venere privata, ed è uno strano poliziotto. Intanto non
      è un poliziotto ma un medico, no, anzi, non
      è neppure un medico. Lo era, finché non lo
      hanno radiato dall'Ordine a vita e messo
      in galera per tre anni per aver praticato
      l'eutanasia ad una sua anziana paziente malata
      di cancro. Nelle prime pagine del romanzo,
      se ne sta seduto su una panchina a passare
      il tempo contando i sassolini di un viale,
      come ha imparato a fare in galera, aspettando
      che arrivi un ruvido industriale brianzolo
      che vuole assumerlo come baby sitter del
      figlio "grand e ciula", che sta
      inspiegabilmente cercando di suicidarsi a
      forza di bere. C'è un motivo per cui il ragazzo
      fa questo, c'è un mistero, una cosa tremenda,
      che Duca deve risolvere se vuole salvare
      il ragazzo. Così si trasforma in un poliziotto,
      ma è uno strano poliziotto, determínato,
      feroce, apparentemente cinico e invece fragile,
      inquieto e disperatamente sensibile. Non
      è un duro all'americana, Duca, è un italiano
      che ne ha viste troppe e ci sta male. Ma
      come poliziotto è proprio strano. "Siccome
      i morti non tornano e nè io nè nessuno può
      portarle qui Alberta viva" dice al figlio
      dell'industriale, "allora noi dobbiamo
      fare qualche altra cosa. Quella più importante
      è di trovare la persona che l'ha uccisa,
      o che l'ha costretta ad uccidersi, e quando
      l'abbiamo trovata la strozziamo, lei deve
      pensare questo, che la troveremo e la strozzeremo".
      Non la strozzano, e nel romanzo successivo,
      Traditori di tutti, uscito lo stesso anno, Duca viene assunto
      dalla Questura di Milano, dove rimane anche
      in I ragazzi del massacro, dell'agosto 1968, e I milanesi ammazzano al sabato, dell'aprile 1969, a raccontare, lui, tutte
      le contraddizioni di un'Italia che vale anche
      oggi, quella dei poveri cristi, degli emarginati,
      degli alienati e degli indifferenti nascosti
      tra le pieghe di un paese inebriato dal boom
      economico delle prime lavatrici e delle prime
      seicento, quella di una criminalità nuova
      assurdamente feroce, senza più pudore e senza
      più paura, quella del potere, delle coperture
      politiche e degli insabbiamenti, quella della
      brava gente "dolorante e disperata"
      come Amanzio Berzaghi, vecchio milanese camionista,
      che lo sa che ammazzare "l'è minga giust,
      ma che in un meraviglioso e imprevedibile
      sabato novembrino" perde la testa. E'
      in questa Italia così moderna e così attuale
      che Duca cerca i bari, quelli che non stanno
      alle regole, "i banditi con l'ufficio
      legale a latere" che "imbrogliano,
      rubano e ammazzano, ma hanno già studiato
      la linea di difesa con il loro avvocato nel
      caso fossero scoperti e processati e non
      vengono mai puniti abbastanza". E li
      cerca con tanto odio e con tanta rigida determinazione
      da farsi scambiare per fascista. Mi perdoni,
      ma l'ho sentito dire anche di lei, l'ultima
      volta in Francia, da scrittori di noir autori
      di romanzi molto simili ai suoi: "Scerbanenco?
      ma non è un fascista?" lo non ci credo.
      Credo che sia piuttosto l'arrabbiatura e
      l'abbruttimento di chi ha visto "troppa
      miseria", come lei stesso racconta in
      un frammento bellissimo di autobiografia
      che si chiama Io, Vladimir Scerbanenko, e che si trova in fondo all'edizione di
      Venere privata che Garzanti ha ristampato negli Elefanti.
      Lo stato d'animo di un russo figlio di madre
      italiana col padre fucilato durante la rivoluzione,
      un romano di Kiev con una k di troppo nel
      cognome, che cerca di sopravvivere e di farsi
      accettare in un paese in cui si sente straniero,
      operaio al tornio di una fabbrica di sveglie,
      filosofo autodidatta, paziente di sanatorio,
      ambulanziere e poi contabile alla Croce Rossa,
      e alla fine autore di racconti, redattore
      e direttore di riviste femminili, scrittore.
      E forse, anche i pregiudizi di un uomo morto
      e vissuto prima dei '68 e di tutto il resto.
      Ma non un fascista. 
      C'è un altro coraggio nei suoi libri, ed
      è il coraggio di chíamare le cose con il
      loro nome. E' un coraggio che non si trova
      spesso nella letteratura italiana, fino a
      non molto tempo fa neppure in quella di genere
      e oggi men che mai nella fíction cinematografica
      o televisiva. Niente filtri per schermare
      la realtà, che è disperata, feroce, nuda
      e cruda come nei romanzi, più noti, di un
      James Ellroy o di un Jim Thompson. Nessuna
      scusa e nessun compromesso, nessun eroe senza
      macchia, a partire da Duca Lamberti o dai
      suoi colleghi questurini. "E come è
      stato scoperto?" "A schiaffi. Era
      Mascaranti che l'interrogava. Quando combinano
      quei trucchi non pensano mai agli schiaffi.
      Non c'è mica bisogno di tante torture cinesi,
      al quinto o sesto schiaffo di Mascaranti,
      uno deve decidere prima che il cervello gli
      vada in acqua". Non è bello, non è giusto,
      lo dice anche Duca, lo dice anche lei, ma
      è cosi che succede ed è così che si racconta.
      Chiamando le cose con il loro nome con uno
      stile che è sempre così rapido e concreto
      da sembrare a volte abbozzato o sgrammaticato
      e invece no, è una scelta accurata che non
      trascura nessuna parola, neppure i nomi della
      gente. Come ne "La lussuria", uno dei cinquecento racconti che
      Frassinelli ha raccolto nell'introvabile
      Il Cinquecentodelitti, dove siede a testimoniare una donna grigia,
      "vestita di grigio, sembrava avesse
      un grembiule più che un abito, aveva il viso
      grigio come l'abito, cosi i capelli, e anche
      la voce sembrava grigia". E come si
      chiama? Erminia Lavini, un nome desueto ma
      non abbastanza, che sembra stinto a forza
      di lavarlo.  
      E poi c'è un altro coraggio, uno dei più
      importanti: il coraggio di essere un narratore.
      Un narratore, uno che racconta storie, uno
      scrittore e basta, diremmo noi, ma non importa.
      Uno che se ne frega della divisione tra Letteratura
      Alta e letteratura bassa, e con artigianale,
      minuziosa e ardente passione, "ogni
      settimana, per non dire ogni giorno, per
      non dire ogni ora" come scrive Oreste
      del Buono nella sua prefazione al suo Millestorie, sempre di Frassinelli, "era in grado
      di sfornare una storia fornita di trama e
      personaggi dotati di una toccante tendenza
      ad imprimersi nella memoria". Storie,
      storie vere ed eccezionali anche se minime,
      racconti di poche righe che per densità potrebbero
      essere le righe centrali di un romanzo di
      centinaia di pagine. Storie imparate da quella
      vita di miseria, dettate dalla sensibilità
      dello scrittore o sentite in tutti quegli
      anni passati a rispondere alla posta dei
      lettori, seduto alla macchina da scrivere
      dei settimanali rosa come in un confessionale
      laico. Storie da raccontare, come va fatto
      e senza tante scuse. Lei lo dice con la solita
      semplicità, e sembra quasi facile. "il
      profano pensa che l'ispirazione sia qualcosa
      di magico (...). E' molto bello pensare al
      poeta che guarda il cielo azzurro in attesa
      dell'ispirazione. Ma non è così. Si scrive
      quando si vuole e l'ispirazione, forse, non
      esiste. Come in tutte le cose bisogna soltanto
      aver voglia di scrivere, averne piacere.
      Anche per stirare un mucchio di biancheria,
      o per fare una maglia con i ferri bisogna
      averne voglia o piacere (...). A me piace
      scrivere". Bè, questo lo abbiamo visto.
      Come abbiamo visto il suo coraggio nel rapportarsi
      alla narrativa di genere e alle sue stesse
      regole. Entrando e uscendo dai canoni del
      giallo e del noir, contravvenendo alle regole,
      costruendo trame che riescono ad essere sempre
      avvincenti anche quando sono ingenue, come
      quelle di Raymond Chandler, permettendosi
      di abbandonarsi a sentimenti di estrema tenerezza
      anche nei racconti più duri, fino a scrivere
      decine e decine di romanzi rosa, centinaia
      di racconti d'amore, infischiandosene di
      qualunque etichetta e di qualunque norma,
      se non quella di scegliere il modo più giusto,
      la struttura narrativa più efficace per raccontare
      una storia.  
      Perché sono importanti le storie. Lei lo
      dice con chiarezza, anche questo, in Io, Vladimir Scerbanenko, e lo dice con la tecnica del migliore autore
      di noir. Riceve una lettera da una lettrice
      che si vuole suicidare, lei gli risponde
      con tutta la forza di convinzione che uno
      scrittore può comunicare, le parole giuste,
      le motivazioni giuste, tutto, ma quella cerca
      di uccidersi lo stesso. Allora la letteratura
      è inutile? Allora scrivere, raccontare, criticare,
      denunciare, mostrare le contraddizioni e
      le ipocrisie della società come ha fatto
      lei, come fanno gli scrittori di noir, come
      facciamo noi, è completamente inutile? Ci
      sono rimasto male, quando ho letto quelle
      righe, ma poi, poco dopo, ecco il colpo di
      scena. "Un'altra volta sola sentii in
      una lettera lo stesso dilagante desiderio
      di morire". Lei le risponde, come l'altra
      volta, e la signora dice che la ringrazia
      ma che si ucciderà lo stesso. Lei continua
      a scriverle e la signora le risponde, dice
      che si uccide ma intanto continua a rispondere
      e "ancora l'anno scorso ho ricevuto
      una sua lettera. Questa volta le parole erano
      riuscite a fermare quel desiderio, la mano
      stesa davanti alla locomotiva aveva fermato
      il treno in corsa. Qualche volta accade,
      e allora penso che il mio mestiere di scrivere
      non è inutile".  
      La saluto cordialmente e scusandomi ancora
      per il tempo che le ho fatto perdere la ringrazio
      dell'attenzione che ha voluto dedicarmi,
       
       
      suo  
      CARLO LUCARELLI 
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