"Ghost Dog - il codice del samurai" di Jim Jarmusch
con "Hagakure - Il codice segreto dei Samurai" di Yamamoto Tsunetomo
libro + videocassetta - Lit. 35000 (Einaudi 2001)

Presentazione di Carlo Lucarelli



Il libro: Chi ha visto "Ghost Dog" lo sa: le citazioni di un misterioso libro (la giapponese Hagakure) costellano i mimenti più importanti della trama. Stile libero pubblica quel libro nella versione più accessibile e interessante per un lettore occidentale, tradotto e curato da Luigi Soletta, con una presentazione di Carlo Lucarelli che collega l'estetica del noir con l'etica del samurai. Il lettore scoprirà un tesoro sorprendente, un'immagine della vita e una filosofia solo in apparenza sottomesse al culto della morte.

Il video: Perchè un film su un killer che si muove come un rapper, vive su un tetto, comunica con il mondo attraverso piccioni viaggiatori, ha colpito al cuore il più smaliziato pubblico occidentale? Possono l'onore e una spada rendere un uomo invincibile? Il capolavoro di Jim Jarmusch fin dalla prima uscita nelle sale è entrato di diritto nel numero ristretto delle pellicole "che bisogna avere". Per la colonna sonora degli RZA. Per la bravura del protagonista, Forest Whitaker. Per la surrealtà dei dialoghi e la comicità paradossale delle situazioni. Per la magia delle immagini.



Le maschere del samurai
di Carlo Lucarelli

Samurai /samu'rai/ [dal gíap. samurai, da samurau 'essere al servizio di un signore'] s. m. * Nobile guerriero fedele a un daimyo, signore feudale.

Agli inizi del Seicento i samurai in Giappone erano più di un milione, quasi il cinque per cento della popolazione. Amministravano, governavano, servivano, e soprattutto combattevano, uccidevano e si uccidevano in nome di una regola di vita e di un signore. Se cerchiamo di immaginarli, li leghiamo senza scampo a qualcosa di inconfondibilmente giapponese. Possiamo chiudere gli occhi e vederli, piccoli e grassottelli, grandi e robusti, alti e magri, ma sempre con quei movimenti a metà tra l'ascetico e lo scimmiesco, sia che corrano curvi sulle gambe nude, i piedi aggrappati all'infradito dei sandali dalla suola di legno, le braccia che roteano dentro le maniche ampie del kimono come il Kikuchiyo di I sette samurai di Akira Kurosawa, sia che avanzino da lontano spingendo una carriola con dentro un bimbo silenzioso, il cranio sagomato da geometriche stempiature artificiali e due sciabole alla cintura alla maniera della scuola Nito, come l'Itto Ogami della serie televisiva. Oppure come Toshiro Mifune in Sanjuro, immobili con la katana abbassata in posizione gedan, la punta della lama che sfiora il terreno dopo aver roteato in aria uccidendo in meno di quattordici secondi cinque uomini, immobili anche loro, contorti e tesi, aspettando che trascorra l'attimo per cadere a terra fulminati. Sono talmente legati a quell'immaginario che anche quando riusciamo a collocarli storicamente in un periodo, come nel Far West di Sole rosso di Terence Young, o nella contemporaneità dei cartoni animati di Lupin III, ci sembrano comunque proiettati nel passato, in un'epoca misteriosa, indeterminabile secondo criteri occidentali, chiamata oscuramente medioevo giapponese.
Di quel milione di samurai, qualche anno dopo, la maggior parte diventò un'altra cosa. Con la pace progressivamente instaurata dalla famiglia Tokugawa su tutto il Giappone, il ruolo dei samurai combattente perse di senso, esattamente come quello della cavalleria in Occidente. Chi non seppe rassegnarsi a non usare più la spada diventò un ronin, un samurai senza padrone, sinonimo di volta in volta di soldato mercenario, bandito di strada, istruttore di arti marziali, avventuriero in cerca di imprese. Soprattutto a questi, ai ronin, si ispira il nostro immaginario letterario e cinematografico sui samurai.
Col passare degli anni il samurai della realtà e della storia cambia ancora. Permea dei suo spirito la società giapponese, contribuisce alla sua militarizzazione e industrializzazione, si brucia in gran parte nel rogo della Seconda guerra mondiale e si trasforma in spirito aziendale rendendo possibile il boom economico del Giappone e il suo attuale sviluppo. Il vero samurai, oggi, è un omino in giacca e cravatta, che serve l'azienda con fedeltà cieca, ha un computer allacciato a Internet al posto della katana e se sbaglia una vendita in borsa o un ordine di mercato magari si ritira nel suo monolocale alla periferia di Tokyo e fa seppuku, e anche questo è inconfondibilmente giapponese. Noi occidentali di formazione cineletteraria non riusciremmo a vedere in quell'omino un erede dei quarantasette samurai di Takumi No Kami, che fecero seppuku tutti assieme per seguire il loro signore. Non ci riusciva neppure Yukio Mishima, anche se per altri motivi, pesantemente ideologici; tanto che al principale divulgatore dell'Hagakure come noi la conosciamo non restò altro che farlo anche lui, seppuku, e nella maniera più spettacolare possibile, in una caserma del ministero della Guerra e durante una diretta televisiva. A noi sembra più facile andare a cercare i samurai da un'altra parte, e proprio in Occidente. Nel cinema western, per esempio. Ma soprattutto nel cinema e nella letteratura noir.
A parte esempi di remake diretti di storie di samurai come I magnifici sette di John Sturges, che si rifà a Isette samurai, Per un pugno di dollari di Sergio Leone o Ancora vivo di Walter Hill, che si rifanno a La sfida del samurai di Kurosawa, ci sono molti personaggi nel nostro immaginario cinematografico e letterario, soprattutto noir, che sono samurai senza saperlo.
Jules Maigret è uno di questi. A dirglielo riderebbe, lui, seduto in un bistrot di Parigi a fare colazione, così laico e così francese. Eppure Maigret è un fedelissimo servitore dello stato e della legge, un uomo con un suo fortissimo codice d'onore che in quel servizio ha un punto di forza, ed è l'esperto conoscitore di una tecnica, di un sapere, di un'arte, quella dell'investigazione, che gli serve per combattere al servizio di quel principio. Come un samurai. E Philip Marlowe? Non è un ronin, l'investigatore che siamo soliti immaginare in trench bianco, nato dalla fantasia di Raymond Chandler? Marlowe aveva un padrone, la Procura degli Stati Uniti, distretto di Los Angeles, ma lo ha perso. Da allora vaga di caso in caso, combattendo nel mondo con le armi in cui è abilissimo - sagacia, tenacia, intuizione e ironia - fedele a un personale codice d'onore e di giustizia che gli impedisce, per esempio, di essere disonesto, di rifiutare il caso di un debole vessato, perfino di andare a letto con le clienti. Si spinge talmente avanti il paragone col samurai, da farci assistere anche al sacrificio, a veri e propri seppuku. Non è un suicidio sentimentale quello di Sam Spade che in Il falcone maltese consegna alla legge la donna che ama per osservare la sua personale Hagakure di giustizia e cameratesca lealtà verso un amico ucciso? E sono samurai gran parte dei gangster e dei killer, a partire dal Leon dell'omonimo film di Luc Besson, fino a Frank Costello faccia d'angelo, di Jean Pierre Melville, che ha un titolo originale estremamente rivelatore come Le Samourai. E per finire con chi questo legame lo esplicita completamente, come il bellissimo Ghost Dog di Jim Jarmusch, che cita direttamente l'Hagakure, con il suo killer solitario che medita sui tetti assieme ai suoi piccioni, che infila la pistola nella cintura come fosse una katana e che è pronto a dare la vita per il suo signore, secondo una precisa regola di vita.
Qui il personaggio del noir getta la maschera e si rivela per quello che spesso è.
Un samurai.