PROFONDO GIALLO:
FACCIA A FACCIA
FRA DARIO ARGENTO E
CARLO LUCARELLI |
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Un regista maestro di suspense. Un autore
di thriller.
Insieme per un film, "Nonhosonno",
che promette adrenalina e incubi. Due cultori
del brivido sì confrontano sulla comune passione:
il lato oscuro della psiche umana. Scoprendo
qual è il volto moderno del terrore.
Ho conosciuto Dario Argento in un modo strano,
come si addice a lui e, penso, un po' anche
a me. Ero a Bolzano, per una trasmissione
televisiva che si occupava di delitti irrisolti,
ero stato ore al gelo sul luogo di un omicidio
ed ero tornato in albergo con la febbre.
Ero a letto, tra deliri di brividi freddi
e morti ammazzati, quando il cellulare che
avevo dimenticato acceso si mette a suonare
e sento una voce che dice: "Pronto?
Sono Dario Argento". Ho pensato: "Accidenti,
devo avere proprio la febbre". Invece
no, era lui davvero, che mi chiedeva di collaborare
al film che stava scrivendo con Franco Ferrini.
Una consulenza da giallista, da tecnico dei
meccanismi del giallo e della polizia. Perché
"Non ho sonno" è anche questo,
un giallo, un vero e proprio "wodunit",
un "chi è stato" in cui un vecchio
poliziotto in pensione e il figlio di una
delle vittime si chiedono chi abbia ricominciato
a uccidere secondo una filastrocca agghiacciante.
Ma non solo: è soprattutto un film di Dario
Argento, con la sua capacità di tenere in
tensione, raccontare, scuotere, far saltare
sulla sedia e anche voltare la testa quando
qualcuno ammazza un'altra persona nel più
brutale e fantasioso dei modi. Un film come
"Profondo rosso" dopo altri diversi,
più horror e più metafisici.
Perché questo ritorno al giallo? Ma poi,
è davvero un ritorno?
Ai ritorni veri e propri non credo mai. Penso
che si continui a cambiare, come metodo,
come stile, come impostazione della storia.
Cambia la tecnologia, è cambiato il cinema,
sono cambiati i nostri sentimenti nei confronti
del mondo. Però, con questo film è stato
come tornare a casa. Avevo voglia di tornare
agli inizi della mia carriera, raccontare
i gialli che mi davano soddisfazione. Prima
di scrivere il film ho fatto una full immersíon
nel giallo dagli anni trenta fino a quello
più recente.
"Non ho sonno", infatti, ha dentro
una serie di scrittori come Agatha Christie
ed Ellery Queen, ma soprattutto ha un grande
come Cornell Woolrich, che sapeva unire le
ansie razionali del giallo classico alle
inquietudini più moderne e noir. In questo
film c'è qualcuno che uccide riprendendo
la serie dei delitti commessi da un nano
che avevano sconvolto la città molti anni
prima. C'è una delle figure più usate e abusate
dal cinema e dalla letteratura thriller di
tutti i tempi: il serial killer. A te cosa
evoca questa figura?
A me interessa molto. Adesso è di moda e
non viene raccontata bene. La maggior parte
del cinema americano fa vedere il serial
killer come un indiano scappato dalla riserva,
braccato da tutti finché non lo beccano e
lo uccidono. Invece è un personaggio che
esprime un disagio molto più forte, un tarlo
molto più profondo gli ha bucato quel cervello.
Il serial killer è l'antiumano, è la metà
oscura dell'uomo.
Ecco, la metà oscura... a ogni presentazione
di libri che faccio, C'è sempre una signora
nel pubblico che si alla e mi chiede: ma
perché uno come lei, così a modo e così per
bene, scrive certe cose? Lo chiedo io a te...
perché raccontiamo storie così?
Perché abbiamo una naturale tendenza a queste
tematiche, che si può essere liberata ancora
di più con letture infantili o con film che
hanno colpito l'immaginazione anche da molto
piccoli. Mi ricordo che mio padre e mia madre
mi portarono a teatro, da bambino, a vedere
l'Amleto, e ricordo che alla scena del teschio
rimasi colpitissimo. Nella biblioteca di
mio padre poi trovai i racconti di Edgar
Allan Poe. Non solo, penso dì essere una
persona privilegiata perché parlo con la
mia metà oscura: quando racconti i pensieri
d'un assassino, salti dentro la sua anima
e sei lui, Con grande dolore e con grande
fatica.
Quale metà oscura ti ha fatto più male?
Per certi aspetti, l'assassino di Opera,
il mio film dell'87. E anche quello della
Sindrome di Stendhal mi ha dato molto fastidio.
E "Non ho sonno?
Nel film chi uccide è una persona che mi
è simpatica e quindi non ho fatto fatica
a entrare nella sua psiche, nonostante sia
estremamente violenta e sterminatrice, Ma
è anche bizzarra, non mi ha fatto soffrire
molto.
A te cosa succede quando hai finito di raccontare
una storia: i personaggi ti restano dentro
o è stata una catarsi e finito il film se
ne vanno?
Restano dentro. Infatti non riesco a giudicare
un mio film appena terminato. Dopo riesco
a vederlo come se l'avesse girato un altro.
E allora succede questa stranezza: una specie
di schizofrenia, Dario Argento c'è e non
c'è. E' un essere mitico fuori da me che
non conosco molto bene, una seconda personalità
molto ingombrante che a volte mi è vicina,
a volte no. Mi capita di immaginare certe
scene, le giro e poi mi dico. "Ma come
diavolo gli è venuta in mente a Dario Argento
questa cosa qui?"
Ossessioni e paure: se ne vanno quando uno
le racconta?
Non se ne vanno. Anche perché non so da dove
vengono.
C'è più orrore nella realtà o nei tuoi film?
Nella realtà. C'è un orrore che nei film
non si riesce neanche a raccontare. Non racconto
la realtà, ma la mia psiche, i miei sogni...
cose immaginate che con la realtà non hanno
niente a che fare.
C'è una storia che non sei riuscito a raccontare?
Quasi. Avevo una storia in mente, mi ritirai
un paio di mesi e la scrissi. Si chiamava
Oltre la Morte ed era così orribile che quando
la portai a Dino De Laurentiis lui mi disse
che non la voleva fare. Non toccava neanche
il copione col dito, solo con la matita.
Poi la sceneggiatura è andata perduta e io
non me la ricordo più. Era ispirata a Howard
P. Lovecraft, ambientata tra i vagabondi
di New York.
Sembra già un film, il copione maledetto
che non si trova più. Senti, appena uscì
"Profondo rosso" andai a vederlo
con i miei. A casa, poi, eravamo tutti terrorizzati,
ma mia madre era quella che faceva la dura
e diceva: tanto è tutto pomodoro, ma quando
mio fratello mise su il 45 giri della colonna
sonora lei, dalla cucina, si mise a urlare.
La musica nei tuoi film è sempre stata importantissima.
Qui ci sono di nuovo i Goblins, come allora...
Conoscono molto bene il mio cinema e tante
cose di me. Sono persone che stimo e che
ho sempre frequentato. Loro si sciolsero
nei primi anni Ottanta: li ho rintracciati,
costretti a fare la pace, almeno per questo
film, ed è stata una buona cosa. E poi ci
sono anche i Mau Mau, Il Lago dei Cigni.
La musica è una chiave: racconta personaggi
e luoghi.
I luoghi… uno dei pregi del thriller è quello
di saper raccontare le città. Qui c'è una
bellissima Torino, molto particolare.
In Non ho sonno interessanti sono i luoghi
segreti di Torino, non i grandi viali parigini
o le grandi piazze, ma il fatto che tu stai
in una strada un po' antica con portoni di
legno scolpito, suoni, entri e scopri un
mondo che da fuori non riesci neanche a immaginare:
giardini interni meravigliosi con vetrate
Art déco, scale in marmo, atri stranissimi...
la Torino segreta è molto interessante.
L'ultima cosa: un editore mi ha insegnato
che ogni libro che scrivi deve essere più
bello del precedente. Questo è il tuo film
più bello?
Penso di sì. E' il più interessante, il più
completo. Anche il più maturo. Ecco, guarda,
finalmente sono diventato adulto.