ROBERTO CHIESI INTERVISTA CARLO LUCARELLI
Il codice genetico del romanzo poliziesco.
in occasione dell'incontro ‹‹Estati torbide
e lupi mannari››, presso la biblioteca "R.
Ruffilli" di Bologna il 9 dicembre 1998.
(in rete)
Una parte della tua letteratura sembra nascere
dallo sterminato archivio che rappresenta
la cronaca nera. Usufruisci di racconti orali,
raccogli un archivio giornalistico oppure
effettui vere e proprie ricerche?
La cronaca come la realtà è un eccezionale
archivio di storie: si presentano una serie
di suggestioni che un romanziere non potrebbe
immaginare. Penso che sia negativo quando
un romanziere o un narratore tenta di immaginare
le storie da solo perché finisce per uniformarle
alla sua esperienza, alla sua vita. Esistono
tante storie realmente accadute dalle quali
se ne possono inventare altre. Consulto prevalentemente
fonti d'archivio: un tempo era un impegno
superficiale, mentre adesso opero in maniera
quasi scientifica. L'archivio può essere
usato in vari modi: per un periodo ho rivisitato
‹‹Il Resto del Carlino››, partendo dal 1956
in avanti, in altre circostanze invece capita
di avere un rapporto diretto con la fonte
orale. Frequento per conoscenza i poliziotti
e gli ambienti dei sindacati che raccontano
episodi che non potrei mai conoscere diversamente.
È quasi la figura di un bibliotecario: le
notizie si trovano, ma in gran parte si conoscono
indirettamente. Ma anche la gente comune
è propensa a raccontarmi direttamente vicende
e casi a cui ha assistito. In passato proprio
da ‹‹Il Resto del Carlino›› ho tratto notizie
utili per una traccia di narrazione: si raccontava
di un gruppo di cinesi costretti a lavorare
in uno scantinato. Il giornalista privilegiava
questo aspetto del loro destino contro il
fatto che avrebbero potuto invece spacciare
l'eroina. Ho personalmente indagato sul caso,
anche se non fino in fondo, toccando successivamente
l'immigrazione clandestina cinese, la mafia
cinese e quella italiana, e ne ho tratto
Febbre gialla. Il miglior archivio è quello orale, cioè
l'archivio
di quelle persone che possiedono queste storie
nella loro memoria. La cronaca
nera è un fatto traumatico ed enorme quale
può essere un omicidio che colpisce
una famiglia che per questo motivo si espone
all'informazione pubblica. Quando
avvengono questi fatti, pur essendo un fatto
privato, diviene di dominio
pubblico e questo può rappresentare uno spunto
per raccontarle: il racconto vale
non perché realisticamente riprodotto nella
sua estensione, ma come suggestione
generale, come per il caso del gruppo di
cinesi.
L'inizio di un romanzo diviene spesso un
veicolo
per introdursi in ambienti sociali diversi:
il commissario De Luca viene a
contatto con ambienti altolocati, con personaggi
molto vicini a Mussolini come
accade ne L'estate torbida.
Questo è stato da sempre uno degli aspetti
positivi
del genere giallo anche nel periodo in cui era divenuto un
gioco intellettuale che mirava a svelare
l'identità dell'assassino. Questo genere
ha mantenuto costantemente un privilegio,
cioè quello di profanare il privato, riuscendo
a raccontarlo. Al centro della narrazione
vi è una persona che appare come se fosse
un'istituzione, avendo il potere di fare
domande a chiunque sia che appartenga alle
classi alte che a quelle basse e di andare
e investigare ovunque. Al di là della metafora
narrativa, cioè che l'istituzione sia un
poliziotto o un investigatore, nel romanzo
si traduce nella figura dell'autore che entra
in ambienti o nelle storie di cronaca. L'autore
ha la possibilità di fare questo, creando
un proprio veicolo, cioè il personaggio dell'investigatore
o del poliziotto. A me piace scrivere i romanzi
gialli proprio per questo motivo: se si vuole
conoscere un ambiente o una città, questa
è un'ottima maniera. C'è stato un periodo
storico nella narrativa italiana in cui gli
autori avevano smesso di raccontare la realtà
come si presentava: se qualcuno avesse voluto
conoscere una città avrebbe dovuto farlo
attraverso un romanzo poliziesco. Bologna
era raccontata dal ‹‹Gruppo 13››, Torino
da Gambarotta o da Fruttero e Lucentini.
Questa è una delle vocazioni del giallo, uno degli
aspetti più avvincenti del praticare questo
genere; poiché è richiesta in genere
una traduzione realistica delle cronache
di cui si viene a conoscenza, allora è
quasi un obbligo ritrovare i luoghi menzionati
e farne esperienza visiva. Non
avrei personalmente conosciuto molti luoghi
o realtà se non attraverso e in
virtù dei romanzi.
L'ambientazione generale dei tuoi romanzi
sotto il disfacimento dell'epoca fascista
a che ragioni si lega? Risulta forse dal
clima di paura e di repressione che genera
o dal fatto che, sgretolandosi il regime,
inizia una situazione di particolare tensione
oppure è relativo ad altre ragioni ancora?
Il mio primo romanzo, Carta bianca, è
ambientato alla fine del periodo del disfacimento
fascista a Salò: tutto è
seguito, in verità per puro caso, poiché
in quel periodo stavo preparando la mia
tesi di laurea in Storia contemporanea che
aveva per argomento la polizia nel
periodo fascista e mentre lavoravo sul ‹‹Ventennio››
leggevo libri che
riguardavano l'ultimo periodo del fascismo,
attorno al '45, quando il fascismo
stava sull'orlo del precipizio. In questo
modo ho raccontato quel periodo
attraverso un romanzo poliziesco: l'idea
consisteva nel raccontare le vicende di
un poliziotto che ha in mano il tipico potere
autoritario fascista, ma che nel
breve volgere di due giorni, caduto il fascismo,
si ritrova disarmato. A questo
poliziotto, in seguito, qualcuno chiede conto
di cosa avesse fatto fino a quei
due ultimi giorni: studiando questo periodo
ho scoperto che a Milano esistevano
almeno sedici polizie diverse tra loro e
che avevano il potere di arrestare
chiunque, compresi i membri della polizia
stessa. Ho descritto la vita di una
persona che viveva in uno stato di totale
confusione, privo di potere e sempre
in allarme. Questo periodo ha preso questa
conformazione: l'interesse allora
veniva dalle vicende più che dal periodo
complessivo in sé. Ho preso il
materiale della tesi di laurea e l'ho usato
per il romanzo. Qualche anno dopo ho
raccolto altro materiale per la mia tesi,
ma è diventato il mio secondo
romanzo.
È in preparazione uno spettacolo teatrale
tratto
da una tua 'ri-scrittura' di Via delle Oche: puoi anticiparci le forme di
questa 'ri-scrittura'?
Via delle Oche ha avuto bisogno di una
riduzione per potere essere compreso nella
gabbia teatrale: è infatti un romanzo
corale, ricco di personaggi, con numerose
storie. Luigi Gozzi mi ha proposto di
far parte del progetto ‹‹Tre››, cioè di una
esperienza artistica, fondata sulla
messa in scena di tre opere appartenenti a tre
scrittori (i primi due sono Marcello Fois
e Mario Giorgi), la cui struttura
è fondata su tre personaggi, tre ambienti
e varie altre ricorrenze. Via delle
oche non presentava queste caratteristiche, ma
abbiamo avuto un'idea che ha
fatto in modo che potesse essere trasposto:
essere riusciti ad adattarlo allo
schema stabilito e per me è stato avvincente,
perché si può vedere la storia da
un altro punto di vista. Via delle Oche avrà una struttura ternaria: il
commissario De Luca, Tripolina, che è la
tenutaria del bordello di via delle
Oche, e Lisetta che è una delle prostitute.
Dalle prime opere ad Almost blue sembra vi
sia un cambiamento di ambientazione, e di
scrittura: da una parte si ha una
scarnificazione, dall'altra un'accelerazione.
Ne L'estate torbida alcune
pagine non descrivono le fasi dell'indagine
di De Luca ma la lasciano intuire da
veloci dialoghi telefonici. Sembra che in
queste pagine vi sia una prima traccia
di quella che diventerà la scrittura, almeno
in parte, in Almost blue.
Lo stile dipende in gran parte dalla storia
che si racconta: sembra che la storia e il
personaggio decidano il modo o la maniera
in cui si debba impostare lo stile, ma deriva
anche da una naturale evoluzione, o dal desiderio
di copiare qualcun altro come è successo
a me: i romanzi con il commissario De Luca
erano romanzi storici, molto piani, ed io
avevo certamente meno esperienza di scrittura
che in questo momento, visto che sono trascorsi
almeno otto anni. Allora avevo deciso di
mantenere uno stile sobrio, privandomi dell'uso
di aggettivi o di avverbi. L'ho fatto perché
non volevo influenzare il lettore sulla reale
identità del mio personaggio, volevo che
si potesse svelare da sé. Lo stato d'animo
del commissario De Luca non viene descritto
in dettaglio, ma vengono dati solo gli spunti
iniziali, di modo che il lettore possa interpretare
da solo o per merito della battuta successiva.
In questo modo ho scritto i prime due romanzi,
ma in seguito è accaduto di voler scrivere
una storia diversa, con personaggi diversi
che non possono essere raccontati con uno
stile prefissato: il terzo romanzo che ho
scritto, Falange armata,
presentava come personaggio protagonista
un sovrintendente con un orizzonte
mentale chiuso e ristretto, che non poteva
essere raccontato in terza persona
con le mie parole, occorreva pertanto raccontarlo
in prima persona con le sue
parole. Un personaggio che ha un vocabolario
di non più di cento parole, di cui
novanta sono parolacce: quello era il suo
stile. Un personaggio nevrotico
racconterà in maniera molto veloce: si è
quasi obbligati a cambiare stile,
altrimenti alcune storie non si possono scrivere.
Almost blue doveva
essere scritto con uno stile diverso: alcuni
esperimenti in questa direzione
erano stati fatti, cioè presentavano una
scrittura tagliente, veloce e un po’
sporca. La storia di Almost blue risulta molto tesa, molto truce, molto
forte e per questa ragione aveva bisogno
di un stile che fosse diverso: ho
preferito uno stile che fosse concentrato,
ma veloce. Non è detto che chi scrive
si debba fermare su uno stile fisso: subentrano
lungo la scrittura molte
varianti. L'isola che è il libro sul quale lavoro in questo
momento, è
scritto in maniera molto diversa: ho cercato
di usare uno stile barocco e una
costruzione della frase molto più articolata,
in alcuni casi ho scritto periodi
che superano la solita lunghezza che sono
abituato ad adottare. Tra le figure
retoriche ho utilizzato allitterazioni e metafore contribuiscono a
fondare uno stile diverso. L'ambiente è fantastico
e richiede una scrittura
onirica, e per la costruzione dei personaggi
ugualmente; il periodo storico è il
1925, i personaggi usano una lingua non contemporanea.
Se in seguito dovessi
scrivere, come ho pensato, una continuazione
particolare di Almost blue
ritornerò allo stile di Almost blue, abbandonando le frasi lunghe e
riconquistando uno stile appropriato.
Sembra che in Almost blue, o in altri
romanzi ambientati nell'Italia di oggi, gli
oggetti assumano un valore
particolare; sembra che vengano assorbiti
dalla scrittura, a differenza delle
prime prove letterarie in cui rimangono adagiati
sullo sfondo: qual è la
funzione che assumono gli oggetti?
Guardando a una vicenda contemporanea come
quella di Almost blue o quella di Falange armata, lo sguardo è molto più
ravvicinato; se devo descrivere il protagonista
di un assassino seriale,
togliendo quei gesti che appartengono al
loro essere, restano i gesti che
appartengono a tutti e su quelli posso esercitare
uno sguardo più ravvicinato.
Io uso il computer e pertanto la descrizione
dell'uso del computer può essere
scritta con più verosimiglianza. Se parlo
di De Luca che guida una macchina del
1945, non posso descriverne minuziosamente
le movenze, i gesti. Il periodo
storico e la lontananza, realizza uno strano
fenomeno: i personaggi appaiono più
lontani, sembra che ci sia la lente di ingrandimento
di un binocolo rovesciato
che li osserva, anche se compiono gesti quotidiani.
A me è capitato, mentre
scrivevo Indagine non autorizzata, di andare alla ricerca di libri
scritti nel 1936, per vedere cosa scrivevano
gli autori sui gesti quotidiani, ma
probabilmente non li ho riconosciuti. Qualcuno
sono riuscito a riconoscerlo,
perché scattava un gesto inconsueto; ad esempio
il commissario De Vincenzi, ne
‹‹L'albergo delle Tre Rose›› di De Angelis,
entra in una stanza ed accende la
luce, ma De Angelis non scrive ‹‹accende
la luce››, bensì ‹‹girò la chiavetta e
accese la luce››. Questi sono gesti e oggetti
che entrano in una narrazione
organica, il mio commissario De Luca entra
in un luogo e gira la chiavetta per
accendere la luce. Gli oggetti o i gesti
su cui non ho uno sguardo ravvicinato,
restano come fermi; se io non conosco come
è fatto un tavolo del '500, non posso
descriverlo. Se voglio descriverlo, devo
documentarmi. Non è così per i gesti di
tutti i giorni: l'autore non di proposito
gravita attorno alla tecnologia, alla
musica o altri elementi che rendono un romanzo
più vicino ai nostri tempi. Il
problema è semmai che il nostro tempo lo
si vive e che dunque un personaggio in
una narrazione riproduce gesti ed effetti
che l'autore farebbe. Con il nuovo
romanzo, ambientato nel 1925, ho usato una
tecnica che si adatta alle
condizioni storiche. Pur essendo l'abitazione
fantastica, con certi accorgimenti
stilistici sono riuscito ad ottenere risultati non contraddittori.
Posso utilizzare una serie di espedienti
come se fosse una specie di patto:
quest'isola è mia e la presento secondo le
mie intenzioni. Credo di essere molto
scrupoloso riguardo l'ambientazione storica,
poiché è facile cadere in
contraddizione. In Via delle Oche scrivo ‹‹via Marconi›› che nel '65 era
‹‹via Roma››, dato che ignoravo il nome dell'epoca.
In questo nuovo romanzo, il
personaggio della donna è costretto ad ascoltare
sempre e ossessivamente la
stessa canzone perché è impazzita: resta
ferma a guardare una striscia di luce
con i suoi granelli di polvere; terminata
la canzone ritorna al grammofono,
rimette la puntina del grammofono sul disco
e ritorna a compiere lo stesso gesto
di sempre. La canzone che ascolta è del periodo
storico di riferimento si
intitola Ludovico sei dolce come un fico. Il problema è che il brano è
stato scritto nel 1931, quindi in questo
caso nella mia isola, io
mantengo il brano musicale, ma scendo a un
compromesso con il problema del
realismo.
In Autosole la messa a fuoco di situazioni
triviali serve a definire la natura dei personaggi
come, se si può stabilire un
parallelo, nei tuoi romanzi ‹‹neri››, nei
quali l'illuminazione che viene
portata sui personaggi fa un po’ da cartina
di tornasole di un'intera società.
I piccoli eventi narrati dovrebbero avere
la
potenzialità di allargarsi e di definire
tante altre storie; con i romanzi
noir succede perché è questa la funzione del
dato di cronaca, in cui un
omicidio cambia le regole. Con Autosole ho cercato di fare la medesima
cosa, usando la stessa tecnica del romanzo
noir ma senza riprodurne
alcuna caratteristica. Ogni piccolo gesto
dovrebbe servire a raccontare qualcosa
del personaggio, anche quello che appartiene
al suo passato, la sua
identità.
È una tecnica particolare che ho imparato
da Giorgio
Scerbanenco, che ne fa ampio uso ne Il centodelitti, in cui minima
è la relazione con il delitto e le storie
risultano di varia lunghezza; da poche
righe a dieci pagine si assiste alla presenza,
nel corpo del testo, di tre righe
particolari di un romanzo presupposto, non
raccontato e che potrebbe essersi
svolto prima o dopo le righe di riferimento.
Al posto del delitto che apre il
noir, in questo tipo di romanzo abbiamo un altro
registro narrativo o
tecnico. In Autosole l'intenzione era di creare una serie di
storie che fossero paradigmatiche di altre
cose; i racconti dovevano coprire uno spazio
in prima pagina dell'‹‹Unità››. In quaranta
righe occorreva scrivere una storia breve
con la tecnica usata da Scerbanenco. Ho proceduto
per isolamento, scartando tutto il superfluo
e rimanendo legato alla scintilla che fa
scaturire tutto il resto. A tutta prima sembrava
facile scrivere una serie di racconti di
quaranta righe, ma col tempo ho avuto delle
difficoltà; solo alle sei di sera e dopo
aver pensato per un giorno intero realizzavo
il racconto per il quotidiano. Una specie
di palestra per l'archivio della cronaca
perché le narrazioni alcune volte le scrivevo
di getto, altre erano il risultato delle
ricerche d'archivio. Allora ho trovato argomenti
che restringessero il campo d'azione: l'autostrada,
per esempio, una serie di auto ferme in coda
sulle quali potevo guardare in vari modi.
Successivamente sono andato a guardare nell'archivio.
La serie di racconti scritti per il quotidiano,
poiché Rizzoli mi ha chiesto di raccoglierli,
sono stati integralmente rivisitati, tranne
alcuni che sono stati cassati. Ho scritto
per il quotidiano trentuno racconti; ne risultano
ventotto dopo la cassatura. Il fatto più
interessante di questo consisteva nel fatto
che dovessi togliere le parole anziché aggiungerle
così come accadeva in precedenza. Dapprima
quindi le ho pensate con l'obbligo di pubblicazione
per il giornale, successivamente le ho riscritte
con più calma.
Sembra che ci sia una cura particolare nel
sottolineare gli acciacchi e i malesseri
dell'investigatore De Luca: al fondo
dei personaggi appare un senso di impotenza,
specie quando sono in relazione con
cose più grandi di loro?
Lo stereotipo dell'investigatore nei romanzi
gialli
appare come un superuomo: in realtà è uno
strano stereotipo che appartiene al
genere giallo di serie B, brutti gialli o
a forme che appartengono a un certo
cinema o addirittura a racconti di spionaggio.
In realtà il romanzo poliziesco
sin dall'inizio ha usato figure di personaggi
che erano degli anti-eroi, perché
nasce in un momento in cui il romanzo è il
romanzo dell'anti-eroe, dell'uomo
senza qualità, e anche il romanzo poliziesco
risente di questo tipo di
costruzione. Credo che sia una cosa necessaria
quando si realizza un romanzo
poliziesco, perché si corre un rischio particolare:
il protagonista del romanzo
è l'uomo che cerca e che ti porterà alla
verità e necessariamente diviene
l'eroe; se non lo si colpisce con tutta la
serie di acciacchi che di solito
applico alle descrizioni dei miei personaggi
e che ricordano al contrario che è
un uomo, nonostante la funzione apparentemente
eroica che rappresenta, si cade
nella banalità correndo il rischio di avere
un eroe che risulta antipatico. Io
ho continuato a farlo come fatto tecnico,
anche perché chiunque oggigiorno è
impotente di fronte a una serie di avvenimenti:
il commissario De Luca non
avrebbe mai potuto essere calato in un ambiente
del '45 con la presenza di
sedici polizie e con il rischio di essere
incriminato. Rendo la sua figura non
atletica, non speciale, ma semplicemente
un personaggio che non mangia e non
dorme ed ha una serie di problemi. Se dovessi
scrivere ancora racconti con il
commissario De Luca finirei per aumentare
la dose, rendendolo un personaggio
malato di anoressia con una miriade di problemi.
Se prendiamo ad esempio un
personaggio della letteratura poliziesca
qual è Sherlock Holmes, cioè un
investigatore perfetto e infallibile e lo
analizziamo notiamo che è nevrotico;
un uomo dipendente dalla cocaina, una persona
che ha delle cognizioni culturali
limitate, tranne che per la sua materia o
per la sua professione, che risulta
pazzo, maniaco. I miei personaggi vogliono
essere caratterizzati in questo modo,
e non c'è ragione che siano diversi. Questo
personaggio è un'eredità del codice
genetico del romanzo poliziesco. L'eroe è
un anti-eroe: a me interessano i
personaggi negativi. Con il personaggio del
commissario De Luca avevo iniziato a
raccontare la storia di un personaggio cattivo,
ma succede che ci si
identifichi: la sua cattiveria tende a nasconderla.
Ho scritto un romanzo
intitolato Guernica in cui ho cercato di descrivere e di togliere
ogni
piccolo spunto di umanità, perché il protagonista
è un contrabbandiere, un
doppiogiochista, una spia, un sicario e un
puttaniere. Dalla sua apparenza
fisica ho cercato di eliminare tutto quello
che fosse attraente. Tutti i suoi
gusti da quello astronomico a quello sessuale
sono orrendi. Al mio personaggio è
affidato un capitano appena giunto sul luogo
di lavoro: Filippo Stella che nella
guerra spagnola morirebbe in dieci minuti
se fosse lasciato solo, si ritrova al
centro di un complotto nel quale gli viene
intimato di fare in modo che il
giovane reclutato finisca la sua missione
sano e salvo, altrimenti sarebbero
venute le soffiate tanto agli anarchici quanto
ai franchisti, che lo avrebbero
compromesso. Per tutto il romanzo sono impegnato
a togliere tutta l'umanità da
Filippo Stella, affinché non diventi un personaggio
positivo. Voglio fare in
modo che questo personaggio sia il negativo
totale dell'eroe. Anche
James Bond, pur apparendo un eroe perfetto, non
lo è perché soffre la
solitudine, non può prendere il sole perché
porta tutti i segni delle coltellate
e delle fucilate che ha preso. Se si descrive
un personaggio e si cerca
ulteriormente di indagare a fondo si rivelerà
sempre la sua disumanità. Io non
sono riuscito a renderlo definitivamente
disumano: infatti - pensando al
capitano - egli comincia a rivolgersi alle
persone usando l'espressione ‹‹il mio
capitano›› di modo che la distanza del personaggio
disumano rivelasse una forma
di prossimità. La questione dell'anti-eroe
non è una scelta che si fa
coscientemente, ma un personaggio costruito
si palesa con tutti gli aspetti
positivi o negativi che essi siano.
In uno dei tuoi ultimi libri, Compagni di
sangue, appare una scrittura scarnificata, un grado
zero della scrittura,
cioè una tipologia di scrittura nuova e diversa,
asciutta, che racconta e
ricostruisce una vicenda inverosimile e incredibile.
Qual è stato il lavoro
sulla scrittura?
Per questo libro ho scritto di mio pugno
l'inizio e
la fine. La parte centrale è scritta a quattro
mani: la prima stesura è scritta
da un poliziotto, la seconda da me, e infine
rielaborata insieme. L'impressione
di una scrittura scarnificata è la conseguenza
di un verbale sul quale abbiamo
lavorato; questo libro è nato dalle reali
indagini sul caso del mostro di
Firenze, e il poliziotto viene a figurare
al termine del primo processo, in cui
Pacciani é rinviato a giudizio mentre i compagni
di merenda sono scagionati. Il
materiale appariva come il lungo memoriale
di uno scrittore che non ha
dimestichezza con la scrittura. La lingua
era molto vicina a quella dei verbali
ma anche vicina alla parlata colloquiale
degli addetti ai lavori. L'impegno
consisteva in questo: volevamo realizzare
un libro leggibile ma che conservasse
l'identità di un verbale, perché chi stava
scrivendo aveva una responsabilità
contro una versione romanzata. L'interesse
principale erano le carte e la
conoscenza delle indagini sul mostro di Firenze
da parte del poliziotto: volevo
essere nel caso dall'interno e non dall'esterno.
Il risultato è una stesura
realizzata con le tecniche del romanzo, applicate
a materiale cronachistico
relativo a un fatto reale. Il maestro di
questa tecnica si chiama Truman Capote
che ha scritto un bellissimo libro negli
anni '50, Sangue freddo.
Anche in questo caso la storia sceglie lo
stile; il primo interesse è caduto sui
riassunti degli omicidi del mostro di Firenze
che altro non erano che i
sopralluoghi tecnici che riproduceva. La
lingua risultava molto pesante, poiché
di matrice professionale: cominciando la
fase di ri-scrittura ho eliminato solo
le ripetizioni, mantenendo molte espressioni
del gergo usato dal poliziotto. Ho
soppresso ogni seduzione della fantasia,
perché avrei tradito quanto era nelle
intenzioni del poliziotto, ma anche in generale
il senso del verbale in sé. In
Almost blue non descrivo il massacro, perché penso che
la suspence
sia maggiore in una persona che al massacro
assiste e non rendendolo mediante la
nuda descrizione. Appare invero meno bello
di come avrebbe potuto essere
rispetto a una scrittura priva della presenza
del verbale, ma così deve essere,
un'operazione mimetica.
La parte finale di Compagni di sangue è
opera tua: c'è una circostanza nella quale tiri le fila di questo momento
drammatico, invertendo l'ordine interpretativo, la sostanza e l'esito delle
indagini. Ogni tuo personaggio, anch'esso come De Luca nell'atto di indagare, si
caratterizza per una manifesta impotenza esistenziale; lo stesso fallimento
della giustizia sembra speculare a questa impostazione. C'è una relazione tra le
due realtà?
Un grado dell'evoluzione del romanzo poliziesco
è
proprio questo senso di impotenza che deriva
dall'osservazione della realtà; i
delitti restano per lo più irrisolti, ma
anche quelli risolti non tradiscono un
senso fisico di onnipotenza perché c'è sempre
qualcosa che non torna; sono
costretto a dire tra le righe quello che
dal mio amico poliziotto non è stato
svelato, ma porto a piccole dosi. È un senso
di impotenza che affligge chi si
occupa di cronaca nera. Non è solo il fatto
fisico dell'impotenza in un mondo
condizionato, in modo tale che la verità
resta lontana, ma un situazione tale
per cui alla verità non si arriva in assoluto.
I miei personaggi, se voglio che
siano negativi, devo avere la convinzione
nella coscienza di non farli diventare
positivi; se io mi attengo a una particolare
parte della grammatica narrativa il
mio personaggio cambia. Questo significa
che non esiste una verità oggettiva per
un personaggio letterario perché dipende
dai punti di vista. Ho pensato che
questo fosse proprio solo della letteratura:
avere l'impressione che un
personaggio possa essere l'assassino ed esserne
certi, può essere solo il
prodotto di una lettura della realtà errata,
cioè nel caso della letteratura,
avere una conoscenza delle cose dettate da
una narrazione che induce ad
attribuire alcune colpe più che altre. E
il modo in cui si racconta una vicenda
a segnare le direttive dell'interpretazione.
Il sentimento di impotenza di
fronte al caso irrisolto si assume come principio
della risoluzione: il giallo o
il romanzo poliziesco tenta di mettere a
posto le cose, ma può anche essere un
modo per riconciliarsi con la realtà.
I tuoi soggetti si sono nutriti di storie
cinematografiche?
La mia generazione possiede un immaginario
visivo più
forte di quello puramente letterario. Ho
visto personalmente più film di quanti
libri abbia letto: quando abbiamo in mente
qualche cosa può avere un'origine
visiva più che letteraria. Il personaggio
che costruisco non appartiene
solamente alla convenzione letteraria, ma
è soprattutto un personaggio che ho
visto. La vista è il senso privilegiato.
Il commissario De Luca ha delle
caratteristiche che soltanto superficialmente
appartengono a personaggi
letterari. Veste l'impermeabile bianco che
è codificato come indumento di un
canonico personaggio della letteratura, Philip
Marlowe di Raymond Chandler. In
realtà il mio ricordo risale a Il gobbo di Carlo Lizzani, in cui c'è un
commissario che porta la camicia nera e l'impermeabile
bianco. Un altro
personaggio a cui è stato paragonato e del
quale avrebbe potuto essere la
derivazione naturale, non è il commissario
Ingravallo de Il pasticciaccio
brutto di via Merulana di Carlo Emilio Gadda, ma il ricordo di
Un
maledetto imbroglio di Pietro Germi. Il mio immaginario è dunque
visivo.
Tutta la mia generazione si muove in questo
senso e pesca nel cinema l'idea di
immaginario che compone i propri romanzi.
Lo stesso montaggio cinematografico è
un elemento che contribuisce all'identità
dei romanzi; si parla infatti di
scene, cioè di una narrazione letteraria
che è diventata cinematografica.
Scrivendo Almost blue ho usato una tecnica cinematografica: l'ho
copiata da Roman Polansky che scrivendo la
traccia narrativa di un film utilizza
i post it come se fossero le scene. Ho fatto la stessa
cosa per
Almost blue, scrivendo su ogni post it tutte le
azioni del mio romanzo, tutte le scene, formando
una striscia su di un tavolo.
Su un'altra ho scritto tutte le motivazioni
psicologiche, nella terza tutti gli
sviluppi del giallo. In seguito ho iniziato
a manomettere l'ordine stabilito,
rendendo il materiale formalmente diverso.
Ho in definitiva rimontato il
materiale narrativo scritto come se fosse
un film.
Puoi parlarci dell'effetto sorpresa nei tuoi
romanzi.
Per me è importante cambiare quello che potremmo
definire un cliché, cioè una situazione canonica che viene
invertita
improvvisamente. C'è anche il tentativo di
oltrepassare le impostazioni
canoniche di ogni genere: il desiderio è
di invertire anche il solo prototipo di
commissario. La funzione del cambiamento
è tanto più forte a seconda di quanto
forte sia l'aspettativa. Questo vale anche
per gli avvenimenti: si ha
l'impressione che debbano accadere delle
cose ma al contrario ne accadono altre.