ROBERTO CHIESI INTERVISTA CARLO LUCARELLI
Il codice genetico del romanzo poliziesco.

in occasione dell'incontro ‹‹Estati torbide e lupi mannari››, presso la biblioteca "R. Ruffilli" di Bologna il 9 dicembre 1998.
(in rete)

Una parte della tua letteratura sembra nascere dallo sterminato archivio che rappresenta la cronaca nera. Usufruisci di racconti orali, raccogli un archivio giornalistico oppure effettui vere e proprie ricerche?
La cronaca come la realtà è un eccezionale archivio di storie: si presentano una serie di suggestioni che un romanziere non potrebbe immaginare. Penso che sia negativo quando un romanziere o un narratore tenta di immaginare le storie da solo perché finisce per uniformarle alla sua esperienza, alla sua vita. Esistono tante storie realmente accadute dalle quali se ne possono inventare altre. Consulto prevalentemente fonti d'archivio: un tempo era un impegno superficiale, mentre adesso opero in maniera quasi scientifica. L'archivio può essere usato in vari modi: per un periodo ho rivisitato ‹‹Il Resto del Carlino››, partendo dal 1956 in avanti, in altre circostanze invece capita di avere un rapporto diretto con la fonte orale. Frequento per conoscenza i poliziotti e gli ambienti dei sindacati che raccontano episodi che non potrei mai conoscere diversamente. È quasi la figura di un bibliotecario: le notizie si trovano, ma in gran parte si conoscono indirettamente. Ma anche la gente comune è propensa a raccontarmi direttamente vicende e casi a cui ha assistito. In passato proprio da ‹‹Il Resto del Carlino›› ho tratto notizie utili per una traccia di narrazione: si raccontava di un gruppo di cinesi costretti a lavorare in uno scantinato. Il giornalista privilegiava questo aspetto del loro destino contro il fatto che avrebbero potuto invece spacciare l'eroina. Ho personalmente indagato sul caso, anche se non fino in fondo, toccando successivamente l'immigrazione clandestina cinese, la mafia cinese e quella italiana, e ne ho tratto Febbre gialla. Il miglior archivio è quello orale, cioè l'archivio di quelle persone che possiedono queste storie nella loro memoria. La cronaca nera è un fatto traumatico ed enorme quale può essere un omicidio che colpisce una famiglia che per questo motivo si espone all'informazione pubblica. Quando avvengono questi fatti, pur essendo un fatto privato, diviene di dominio pubblico e questo può rappresentare uno spunto per raccontarle: il racconto vale non perché realisticamente riprodotto nella sua estensione, ma come suggestione generale, come per il caso del gruppo di cinesi.


L'inizio di un romanzo diviene spesso un veicolo per introdursi in ambienti sociali diversi: il commissario De Luca viene a contatto con ambienti altolocati, con personaggi molto vicini a Mussolini come accade ne L'estate torbida.
Questo è stato da sempre uno degli aspetti positivi del genere giallo anche nel periodo in cui era divenuto un gioco intellettuale che mirava a svelare l'identità dell'assassino. Questo genere ha mantenuto costantemente un privilegio, cioè quello di profanare il privato, riuscendo a raccontarlo. Al centro della narrazione vi è una persona che appare come se fosse un'istituzione, avendo il potere di fare domande a chiunque sia che appartenga alle classi alte che a quelle basse e di andare e investigare ovunque. Al di là della metafora narrativa, cioè che l'istituzione sia un poliziotto o un investigatore, nel romanzo si traduce nella figura dell'autore che entra in ambienti o nelle storie di cronaca. L'autore ha la possibilità di fare questo, creando un proprio veicolo, cioè il personaggio dell'investigatore o del poliziotto. A me piace scrivere i romanzi gialli proprio per questo motivo: se si vuole conoscere un ambiente o una città, questa è un'ottima maniera. C'è stato un periodo storico nella narrativa italiana in cui gli autori avevano smesso di raccontare la realtà come si presentava: se qualcuno avesse voluto conoscere una città avrebbe dovuto farlo attraverso un romanzo poliziesco. Bologna era raccontata dal ‹‹Gruppo 13››, Torino da Gambarotta o da Fruttero e Lucentini. Questa è una delle vocazioni del giallo, uno degli aspetti più avvincenti del praticare questo genere; poiché è richiesta in genere una traduzione realistica delle cronache di cui si viene a conoscenza, allora è quasi un obbligo ritrovare i luoghi menzionati e farne esperienza visiva. Non avrei personalmente conosciuto molti luoghi o realtà se non attraverso e in virtù dei romanzi.  

L'ambientazione generale dei tuoi romanzi sotto il disfacimento dell'epoca fascista a che ragioni si lega? Risulta forse dal clima di paura e di repressione che genera o dal fatto che, sgretolandosi il regime, inizia una situazione di particolare tensione oppure è relativo ad altre ragioni ancora?
Il mio primo romanzo, Carta bianca, è ambientato alla fine del periodo del disfacimento fascista a Salò: tutto è seguito, in verità per puro caso, poiché in quel periodo stavo preparando la mia tesi di laurea in Storia contemporanea che aveva per argomento la polizia nel periodo fascista e mentre lavoravo sul ‹‹Ventennio›› leggevo libri che riguardavano l'ultimo periodo del fascismo, attorno al '45, quando il fascismo stava sull'orlo del precipizio. In questo modo ho raccontato quel periodo attraverso un romanzo poliziesco: l'idea consisteva nel raccontare le vicende di un poliziotto che ha in mano il tipico potere autoritario fascista, ma che nel breve volgere di due giorni, caduto il fascismo, si ritrova disarmato. A questo poliziotto, in seguito, qualcuno chiede conto di cosa avesse fatto fino a quei due ultimi giorni: studiando questo periodo ho scoperto che a Milano esistevano almeno sedici polizie diverse tra loro e che avevano il potere di arrestare chiunque, compresi i membri della polizia stessa. Ho descritto la vita di una persona che viveva in uno stato di totale confusione, privo di potere e sempre in allarme. Questo periodo ha preso questa conformazione: l'interesse allora veniva dalle vicende più che dal periodo complessivo in sé. Ho preso il materiale della tesi di laurea e l'ho usato per il romanzo. Qualche anno dopo ho raccolto altro materiale per la mia tesi, ma è diventato il mio secondo romanzo.

È in preparazione uno spettacolo teatrale tratto da una tua 'ri-scrittura' di Via delle Oche: puoi anticiparci le forme di questa 'ri-scrittura'?
Via delle Oche ha avuto bisogno di una riduzione per potere essere compreso nella gabbia teatrale: è infatti un romanzo corale, ricco di personaggi, con numerose storie. Luigi Gozzi mi ha proposto di far parte del progetto ‹‹Tre››, cioè di una esperienza artistica, fondata sulla messa in scena di tre opere appartenenti a tre scrittori (i primi due sono Marcello Fois e Mario Giorgi), la cui struttura è fondata su tre personaggi, tre ambienti e varie altre ricorrenze. Via delle oche non presentava queste caratteristiche, ma abbiamo avuto un'idea che ha fatto in modo che potesse essere trasposto: essere riusciti ad adattarlo allo schema stabilito e per me è stato avvincente, perché si può vedere la storia da un altro punto di vista. Via delle Oche avrà una struttura ternaria: il commissario De Luca, Tripolina, che è la tenutaria del bordello di via delle Oche, e Lisetta che è una delle prostitute.

Dalle prime opere ad Almost blue sembra vi sia un cambiamento di ambientazione, e di scrittura: da una parte si ha una scarnificazione, dall'altra un'accelerazione. Ne L'estate torbida alcune pagine non descrivono le fasi dell'indagine di De Luca ma la lasciano intuire da veloci dialoghi telefonici. Sembra che in queste pagine vi sia una prima traccia di quella che diventerà la scrittura, almeno in parte, in Almost blue.
Lo stile dipende in gran parte dalla storia che si racconta: sembra che la storia e il personaggio decidano il modo o la maniera in cui si debba impostare lo stile, ma deriva anche da una naturale evoluzione, o dal desiderio di copiare qualcun altro come è successo a me: i romanzi con il commissario De Luca erano romanzi storici, molto piani, ed io avevo certamente meno esperienza di scrittura che in questo momento, visto che sono trascorsi almeno otto anni. Allora avevo deciso di mantenere uno stile sobrio, privandomi dell'uso di aggettivi o di avverbi. L'ho fatto perché non volevo influenzare il lettore sulla reale identità del mio personaggio, volevo che si potesse svelare da sé. Lo stato d'animo del commissario De Luca non viene descritto in dettaglio, ma vengono dati solo gli spunti iniziali, di modo che il lettore possa interpretare da solo o per merito della battuta successiva. In questo modo ho scritto i prime due romanzi, ma in seguito è accaduto di voler scrivere una storia diversa, con personaggi diversi che non possono essere raccontati con uno stile prefissato: il terzo romanzo che ho scritto, Falange armata, presentava come personaggio protagonista un sovrintendente con un orizzonte mentale chiuso e ristretto, che non poteva essere raccontato in terza persona con le mie parole, occorreva pertanto raccontarlo in prima persona con le sue parole. Un personaggio che ha un vocabolario di non più di cento parole, di cui novanta sono parolacce: quello era il suo stile. Un personaggio nevrotico racconterà in maniera molto veloce: si è quasi obbligati a cambiare stile, altrimenti alcune storie non si possono scrivere. Almost blue doveva essere scritto con uno stile diverso: alcuni esperimenti in questa direzione erano stati fatti, cioè presentavano una scrittura tagliente, veloce e un po’ sporca. La storia di Almost blue risulta molto tesa, molto truce, molto forte e per questa ragione aveva bisogno di un stile che fosse diverso: ho preferito uno stile che fosse concentrato, ma veloce. Non è detto che chi scrive si debba fermare su uno stile fisso: subentrano lungo la scrittura molte varianti. L'isola che è il libro sul quale lavoro in questo momento, è scritto in maniera molto diversa: ho cercato di usare uno stile barocco e una costruzione della frase molto più articolata, in alcuni casi ho scritto periodi che superano la solita lunghezza che sono abituato ad adottare. Tra le figure retoriche ho utilizzato allitterazioni e metafore contribuiscono a fondare uno stile diverso. L'ambiente è fantastico e richiede una scrittura onirica, e per la costruzione dei personaggi ugualmente; il periodo storico è il 1925, i personaggi usano una lingua non contemporanea. Se in seguito dovessi scrivere, come ho pensato, una continuazione particolare di Almost blue ritornerò allo stile di Almost blue, abbandonando le frasi lunghe e riconquistando uno stile appropriato.


Sembra che in Almost blue, o in altri romanzi ambientati nell'Italia di oggi, gli oggetti assumano un valore particolare; sembra che vengano assorbiti dalla scrittura, a differenza delle prime prove letterarie in cui rimangono adagiati sullo sfondo: qual è la funzione che assumono gli oggetti?
Guardando a una vicenda contemporanea come quella di Almost blue o quella di Falange armata, lo sguardo è molto più ravvicinato; se devo descrivere il protagonista di un assassino seriale, togliendo quei gesti che appartengono al loro essere, restano i gesti che appartengono a tutti e su quelli posso esercitare uno sguardo più ravvicinato. Io uso il computer e pertanto la descrizione dell'uso del computer può essere scritta con più verosimiglianza. Se parlo di De Luca che guida una macchina del 1945, non posso descriverne minuziosamente le movenze, i gesti. Il periodo storico e la lontananza, realizza uno strano fenomeno: i personaggi appaiono più lontani, sembra che ci sia la lente di ingrandimento di un binocolo rovesciato che li osserva, anche se compiono gesti quotidiani. A me è capitato, mentre scrivevo Indagine non autorizzata, di andare alla ricerca di libri scritti nel 1936, per vedere cosa scrivevano gli autori sui gesti quotidiani, ma probabilmente non li ho riconosciuti. Qualcuno sono riuscito a riconoscerlo, perché scattava un gesto inconsueto; ad esempio il commissario De Vincenzi, ne ‹‹L'albergo delle Tre Rose›› di De Angelis, entra in una stanza ed accende la luce, ma De Angelis non scrive ‹‹accende la luce››, bensì ‹‹girò la chiavetta e accese la luce››. Questi sono gesti e oggetti che entrano in una narrazione organica, il mio commissario De Luca entra in un luogo e gira la chiavetta per accendere la luce. Gli oggetti o i gesti su cui non ho uno sguardo ravvicinato, restano come fermi; se io non conosco come è fatto un tavolo del '500, non posso descriverlo. Se voglio descriverlo, devo documentarmi. Non è così per i gesti di tutti i giorni: l'autore non di proposito gravita attorno alla tecnologia, alla musica o altri elementi che rendono un romanzo più vicino ai nostri tempi. Il problema è semmai che il nostro tempo lo si vive e che dunque un personaggio in una narrazione riproduce gesti ed effetti che l'autore farebbe. Con il nuovo romanzo, ambientato nel 1925, ho usato una tecnica che si adatta alle condizioni storiche. Pur essendo l'abitazione fantastica, con certi accorgimenti stilistici sono riuscito ad ottenere risultati non contraddittori. Posso utilizzare una serie di espedienti come se fosse una specie di patto: quest'isola è mia e la presento secondo le mie intenzioni. Credo di essere molto scrupoloso riguardo l'ambientazione storica, poiché è facile cadere in contraddizione. In Via delle Oche scrivo ‹‹via Marconi›› che nel '65 era ‹‹via Roma››, dato che ignoravo il nome dell'epoca. In questo nuovo romanzo, il personaggio della donna è costretto ad ascoltare sempre e ossessivamente la stessa canzone perché è impazzita: resta ferma a guardare una striscia di luce con i suoi granelli di polvere; terminata la canzone ritorna al grammofono, rimette la puntina del grammofono sul disco e ritorna a compiere lo stesso gesto di sempre. La canzone che ascolta è del periodo storico di riferimento si intitola Ludovico sei dolce come un fico. Il problema è che il brano è stato scritto nel 1931, quindi in questo caso nella mia isola, io mantengo il brano musicale, ma scendo a un compromesso con il problema del realismo.


In Autosole la messa a fuoco di situazioni triviali serve a definire la natura dei personaggi come, se si può stabilire un parallelo, nei tuoi romanzi ‹‹neri››, nei quali l'illuminazione che viene portata sui personaggi fa un po’ da cartina di tornasole di un'intera società.
I piccoli eventi narrati dovrebbero avere la potenzialità di allargarsi e di definire tante altre storie; con i romanzi noir succede perché è questa la funzione del dato di cronaca, in cui un omicidio cambia le regole. Con Autosole ho cercato di fare la medesima cosa, usando la stessa tecnica del romanzo noir ma senza riprodurne alcuna caratteristica. Ogni piccolo gesto dovrebbe servire a raccontare qualcosa del personaggio, anche quello che appartiene al suo passato, la sua identità.
È una tecnica particolare che ho imparato da Giorgio Scerbanenco, che ne fa ampio uso ne Il centodelitti, in cui minima è la relazione con il delitto e le storie risultano di varia lunghezza; da poche righe a dieci pagine si assiste alla presenza, nel corpo del testo, di tre righe particolari di un romanzo presupposto, non raccontato e che potrebbe essersi svolto prima o dopo le righe di riferimento. Al posto del delitto che apre il noir, in questo tipo di romanzo abbiamo un altro registro narrativo o tecnico. In Autosole l'intenzione era di creare una serie di storie che fossero paradigmatiche di altre cose; i racconti dovevano coprire uno spazio in prima pagina dell'‹‹Unità››. In quaranta righe occorreva scrivere una storia breve con la tecnica usata da Scerbanenco. Ho proceduto per isolamento, scartando tutto il superfluo e rimanendo legato alla scintilla che fa scaturire tutto il resto. A tutta prima sembrava facile scrivere una serie di racconti di quaranta righe, ma col tempo ho avuto delle difficoltà; solo alle sei di sera e dopo aver pensato per un giorno intero realizzavo il racconto per il quotidiano. Una specie di palestra per l'archivio della cronaca perché le narrazioni alcune volte le scrivevo di getto, altre erano il risultato delle ricerche d'archivio. Allora ho trovato argomenti che restringessero il campo d'azione: l'autostrada, per esempio, una serie di auto ferme in coda sulle quali potevo guardare in vari modi. Successivamente sono andato a guardare nell'archivio. La serie di racconti scritti per il quotidiano, poiché Rizzoli mi ha chiesto di raccoglierli, sono stati integralmente rivisitati, tranne alcuni che sono stati cassati. Ho scritto per il quotidiano trentuno racconti; ne risultano ventotto dopo la cassatura. Il fatto più interessante di questo consisteva nel fatto che dovessi togliere le parole anziché aggiungerle così come accadeva in precedenza. Dapprima quindi le ho pensate con l'obbligo di pubblicazione per il giornale, successivamente le ho riscritte con più calma.

Sembra che ci sia una cura particolare nel sottolineare gli acciacchi e i malesseri dell'investigatore De Luca: al fondo dei personaggi appare un senso di impotenza, specie quando sono in relazione con cose più grandi di loro?
Lo stereotipo dell'investigatore nei romanzi gialli appare come un superuomo: in realtà è uno strano stereotipo che appartiene al genere giallo di serie B, brutti gialli o a forme che appartengono a un certo cinema o addirittura a racconti di spionaggio. In realtà il romanzo poliziesco sin dall'inizio ha usato figure di personaggi che erano degli anti-eroi, perché nasce in un momento in cui il romanzo è il romanzo dell'anti-eroe, dell'uomo senza qualità, e anche il romanzo poliziesco risente di questo tipo di costruzione. Credo che sia una cosa necessaria quando si realizza un romanzo poliziesco, perché si corre un rischio particolare: il protagonista del romanzo è l'uomo che cerca e che ti porterà alla verità e necessariamente diviene l'eroe; se non lo si colpisce con tutta la serie di acciacchi che di solito applico alle descrizioni dei miei personaggi e che ricordano al contrario che è un uomo, nonostante la funzione apparentemente eroica che rappresenta, si cade nella banalità correndo il rischio di avere un eroe che risulta antipatico. Io ho continuato a farlo come fatto tecnico, anche perché chiunque oggigiorno è impotente di fronte a una serie di avvenimenti: il commissario De Luca non avrebbe mai potuto essere calato in un ambiente del '45 con la presenza di sedici polizie e con il rischio di essere incriminato. Rendo la sua figura non atletica, non speciale, ma semplicemente un personaggio che non mangia e non dorme ed ha una serie di problemi. Se dovessi scrivere ancora racconti con il commissario De Luca finirei per aumentare la dose, rendendolo un personaggio malato di anoressia con una miriade di problemi. Se prendiamo ad esempio un personaggio della letteratura poliziesca qual è Sherlock Holmes, cioè un investigatore perfetto e infallibile e lo analizziamo notiamo che è nevrotico; un uomo dipendente dalla cocaina, una persona che ha delle cognizioni culturali limitate, tranne che per la sua materia o per la sua professione, che risulta pazzo, maniaco. I miei personaggi vogliono essere caratterizzati in questo modo, e non c'è ragione che siano diversi. Questo personaggio è un'eredità del codice genetico del romanzo poliziesco. L'eroe è un anti-eroe: a me interessano i personaggi negativi. Con il personaggio del commissario De Luca avevo iniziato a raccontare la storia di un personaggio cattivo, ma succede che ci si identifichi: la sua cattiveria tende a nasconderla. Ho scritto un romanzo intitolato Guernica in cui ho cercato di descrivere e di togliere ogni piccolo spunto di umanità, perché il protagonista è un contrabbandiere, un doppiogiochista, una spia, un sicario e un puttaniere. Dalla sua apparenza fisica ho cercato di eliminare tutto quello che fosse attraente. Tutti i suoi gusti da quello astronomico a quello sessuale sono orrendi. Al mio personaggio è affidato un capitano appena giunto sul luogo di lavoro: Filippo Stella che nella guerra spagnola morirebbe in dieci minuti se fosse lasciato solo, si ritrova al centro di un complotto nel quale gli viene intimato di fare in modo che il giovane reclutato finisca la sua missione sano e salvo, altrimenti sarebbero venute le soffiate tanto agli anarchici quanto ai franchisti, che lo avrebbero compromesso. Per tutto il romanzo sono impegnato a togliere tutta l'umanità da Filippo Stella, affinché non diventi un personaggio positivo. Voglio fare in modo che questo personaggio sia il negativo totale dell'eroe. Anche James Bond, pur apparendo un eroe perfetto, non lo è perché soffre la solitudine, non può prendere il sole perché porta tutti i segni delle coltellate e delle fucilate che ha preso. Se si descrive un personaggio e si cerca ulteriormente di indagare a fondo si rivelerà sempre la sua disumanità. Io non sono riuscito a renderlo definitivamente disumano: infatti - pensando al capitano - egli comincia a rivolgersi alle persone usando l'espressione ‹‹il mio capitano›› di modo che la distanza del personaggio disumano rivelasse una forma di prossimità. La questione dell'anti-eroe non è una scelta che si fa coscientemente, ma un personaggio costruito si palesa con tutti gli aspetti positivi o negativi che essi siano.

In uno dei tuoi ultimi libri, Compagni di sangue, appare una scrittura scarnificata, un grado zero della scrittura, cioè una tipologia di scrittura nuova e diversa, asciutta, che racconta e ricostruisce una vicenda inverosimile e incredibile. Qual è stato il lavoro sulla scrittura?
Per questo libro ho scritto di mio pugno l'inizio e la fine. La parte centrale è scritta a quattro mani: la prima stesura è scritta da un poliziotto, la seconda da me, e infine rielaborata insieme. L'impressione di una scrittura scarnificata è la conseguenza di un verbale sul quale abbiamo lavorato; questo libro è nato dalle reali indagini sul caso del mostro di Firenze, e il poliziotto viene a figurare al termine del primo processo, in cui Pacciani é rinviato a giudizio mentre i compagni di merenda sono scagionati. Il materiale appariva come il lungo memoriale di uno scrittore che non ha dimestichezza con la scrittura. La lingua era molto vicina a quella dei verbali ma anche vicina alla parlata colloquiale degli addetti ai lavori. L'impegno consisteva in questo: volevamo realizzare un libro leggibile ma che conservasse l'identità di un verbale, perché chi stava scrivendo aveva una responsabilità contro una versione romanzata. L'interesse principale erano le carte e la conoscenza delle indagini sul mostro di Firenze da parte del poliziotto: volevo essere nel caso dall'interno e non dall'esterno. Il risultato è una stesura realizzata con le tecniche del romanzo, applicate a materiale cronachistico relativo a un fatto reale. Il maestro di questa tecnica si chiama Truman Capote che ha scritto un bellissimo libro negli anni '50, Sangue freddo. Anche in questo caso la storia sceglie lo stile; il primo interesse è caduto sui riassunti degli omicidi del mostro di Firenze che altro non erano che i sopralluoghi tecnici che riproduceva. La lingua risultava molto pesante, poiché di matrice professionale: cominciando la fase di ri-scrittura ho eliminato solo le ripetizioni, mantenendo molte espressioni del gergo usato dal poliziotto. Ho soppresso ogni seduzione della fantasia, perché avrei tradito quanto era nelle intenzioni del poliziotto, ma anche in generale il senso del verbale in sé. In Almost blue non descrivo il massacro, perché penso che la suspence sia maggiore in una persona che al massacro assiste e non rendendolo mediante la nuda descrizione. Appare invero meno bello di come avrebbe potuto essere rispetto a una scrittura priva della presenza del verbale, ma così deve essere, un'operazione mimetica.

La parte finale di Compagni di sangue è opera tua: c'è una circostanza nella quale tiri le fila di questo momento drammatico, invertendo l'ordine interpretativo, la sostanza e l'esito delle indagini. Ogni tuo personaggio, anch'esso come De Luca nell'atto di indagare, si caratterizza per una manifesta impotenza esistenziale; lo stesso fallimento della giustizia sembra speculare a questa impostazione. C'è una relazione tra le due realtà?
Un grado dell'evoluzione del romanzo poliziesco è proprio questo senso di impotenza che deriva dall'osservazione della realtà; i delitti restano per lo più irrisolti, ma anche quelli risolti non tradiscono un senso fisico di onnipotenza perché c'è sempre qualcosa che non torna; sono costretto a dire tra le righe quello che dal mio amico poliziotto non è stato svelato, ma porto a piccole dosi. È un senso di impotenza che affligge chi si occupa di cronaca nera. Non è solo il fatto fisico dell'impotenza in un mondo condizionato, in modo tale che la verità resta lontana, ma un situazione tale per cui alla verità non si arriva in assoluto. I miei personaggi, se voglio che siano negativi, devo avere la convinzione nella coscienza di non farli diventare positivi; se io mi attengo a una particolare parte della grammatica narrativa il mio personaggio cambia. Questo significa che non esiste una verità oggettiva per un personaggio letterario perché dipende dai punti di vista. Ho pensato che questo fosse proprio solo della letteratura: avere l'impressione che un personaggio possa essere l'assassino ed esserne certi, può essere solo il prodotto di una lettura della realtà errata, cioè nel caso della letteratura, avere una conoscenza delle cose dettate da una narrazione che induce ad attribuire alcune colpe più che altre. E il modo in cui si racconta una vicenda a segnare le direttive dell'interpretazione. Il sentimento di impotenza di fronte al caso irrisolto si assume come principio della risoluzione: il giallo o il romanzo poliziesco tenta di mettere a posto le cose, ma può anche essere un modo per riconciliarsi con la realtà.

 I tuoi soggetti si sono nutriti di storie cinematografiche?
La mia generazione possiede un immaginario visivo più forte di quello puramente letterario. Ho visto personalmente più film di quanti libri abbia letto: quando abbiamo in mente qualche cosa può avere un'origine visiva più che letteraria. Il personaggio che costruisco non appartiene solamente alla convenzione letteraria, ma è soprattutto un personaggio che ho visto. La vista è il senso privilegiato. Il commissario De Luca ha delle caratteristiche che soltanto superficialmente appartengono a personaggi letterari. Veste l'impermeabile bianco che è codificato come indumento di un canonico personaggio della letteratura, Philip Marlowe di Raymond Chandler. In realtà il mio ricordo risale a Il gobbo di Carlo Lizzani, in cui c'è un commissario che porta la camicia nera e l'impermeabile bianco. Un altro personaggio a cui è stato paragonato e del quale avrebbe potuto essere la derivazione naturale, non è il commissario Ingravallo de Il pasticciaccio brutto di via Merulana di Carlo Emilio Gadda, ma il ricordo di Un maledetto imbroglio di Pietro Germi. Il mio immaginario è dunque visivo. Tutta la mia generazione si muove in questo senso e pesca nel cinema l'idea di immaginario che compone i propri romanzi. Lo stesso montaggio cinematografico è un elemento che contribuisce all'identità dei romanzi; si parla infatti di scene, cioè di una narrazione letteraria che è diventata cinematografica. Scrivendo Almost blue ho usato una tecnica cinematografica: l'ho copiata da Roman Polansky che scrivendo la traccia narrativa di un film utilizza i post it come se fossero le scene. Ho fatto la stessa cosa per Almost blue, scrivendo su ogni post it tutte le azioni del mio romanzo, tutte le scene, formando una striscia su di un tavolo. Su un'altra ho scritto tutte le motivazioni psicologiche, nella terza tutti gli sviluppi del giallo. In seguito ho iniziato a manomettere l'ordine stabilito, rendendo il materiale formalmente diverso. Ho in definitiva rimontato il materiale narrativo scritto come se fosse un film.

Puoi parlarci dell'effetto sorpresa nei tuoi romanzi.
Per me è importante cambiare quello che potremmo definire un cliché, cioè una situazione canonica che viene invertita improvvisamente. C'è anche il tentativo di oltrepassare le impostazioni canoniche di ogni genere: il desiderio è di invertire anche il solo prototipo di commissario. La funzione del cambiamento è tanto più forte a seconda di quanto forte sia l'aspettativa. Questo vale anche per gli avvenimenti: si ha l'impressione che debbano accadere delle cose ma al contrario ne accadono altre.