TRAME
di Carlo Lucarelli
a cura di Laura Lepri

Spesso le trame della vita lasciano al palo quelle della letteratura. Sono più forti, sorprendenti, impensabili. E' successo a Carlo Lucarelli, ingegnoso artigiano di trame gialle e nere, al quale, tuttavia, questa teoria dei colori del romanzo sembra molto insufficiente, come ogni altra definizione, del resto. Fatto sta che il suo libro, "Falange Armata", provocò non pochi imbarazzi alla Procura di Bologna. Lo aveva scritto nel '93, dopo aver affiancato per molti mesi un giornalista del "Messaggero" che indagava per il suo giornale sugli omicidi della Uno bianca. Anche lui seguiva la nera, come si dice in gergo giornalistico. Insieme avevano girato per le notti bolognesi fra volanti, balordi, delinquenti, furti, morti ammazzati e obitori. Si mormorava che dietro quei delitti ci fossero dei poliziotti, ma ancora, come si dice, la polizia brancolava nel vuoto. Lucarelli pensò che fosse un buono sfondo per un giallo e inventò dei poliziotti colpevoli. Il libro uscì per una casa editrice bolognese, la Granata Press. Mesi dopo, la Procura prese a fare delle indagini seguendo alcune soffiate che però ben presto si rivelarono opera di un mitomane. Quell'uomo, in realtà, seguiva la trama del romanzo di Lucarelli e la raccontava alla polizia in forma di smozzicate rivelazioni.
Nel 1994 vennero arrestati dei poliziotti. Ma i colpevoli di "Falange armata" erano arrivati primi.
Lucarelli sorride: "Peccato che non mi abbiano nemmeno interrogato. Mi sarebbe piaciuto. Ho solo avuto il telefono sottocontrollo per un po', come tutti quelli che avevano avuto a che fare con il caso".
Trentasettenne con lo sguardo sempre un po' stupito, forse po' timido, come quello di un ragazzo, Carlo Lucarelli dice di aver cominciato la sua carriera di romanziere come coloritore di nera per un piccolo giornale locale.

Che significa?

Significa che quelli del "Sabato sera", dopo aver le primo libro, Carta bianca, mi chiamarono dicendo: "Visto che tu scrivi gialli, cioè cose colorate, perché non vieni a colorare í pochi fatti che avvengono a Imola? Magari, sulla signora che cade dalle scale, invece di una colonna, tu riesci a scrivere mezza pagina". Insomma, dovevo ingigantire il fatto. Di lì a poco scoppiò il caso della Uno bianca e a quel punto c'era poco da ingigantire. Cominciai a fare il cronista di nera per davvero.

Continuando a scrivere i suoi libri. Fino ad oggi ne ha scritti sette ma trova il tempo di fare dell'altro: su Internet coordina una rivista, canta in un complesso postpunk, insegna scrittura creativa, scrive sceneggiature, ha seguito il video di Vasco Rossi girato da Roman Polanski, ha appena pubblicato Almost blue, un bel noir dove un serial killer, chiamato l'Iguana, è inseguito da un ragazzo cieco e una donna poliziotto incaricata delle indagini "un thriller nervoso e impeccabile, una storia d'amore e di solitudine. A proposito, noir o giallo?

Meglio noir che giallo. Ma meglio di tutto sarebbe non definirlo affatto. Ci sono un sacco di malintesi sul termine giallo. Quando si pronuncia questa parola, soprattutto i non lettori del genere pensano al giallo classico, per cui immaginano che tu scrivi come Agatha Christie. Se invece il lettore è un esperto di tutte e singole sfumature, pewnsa un'altra cosa ancora che non sono io. Usare "giallo" è come dire "rock" per la musica, non si specifica niente. Noir, secondo me, vuol dire qualcosa di più, ma è una parola che la gente non conosce. Quando spiego che i noir sono quei libri che "parlano della parte oscura di noi eindagano su un mistero", mi sento rispondere: "Ah, ho capito, scrivi gialli, come Agatha Christie", e a quel punto si ricomincia da capo. Allora meglio nessuna definizione. Che cosa vuol dire letteratura pulp, cannibale? Se va bene sono etichette che definiscono un'altra cosa. Meglio niente. O forse meglio una definizione un po' generica come letteratura di tensione o, ancora meglio, romanzi dell'inquietudine. Li chiama così Davide Pinardi, ma credo che l'espressione sia di Dürrenmatt. O romanzi problematici, come quelli di Sciascia. I miei, se posso parlare senza paura di essere frainteso, li chiamo polizieschi perché in effetti tutti i protagonisti dei miei romanzi sono poliziotti. Sono romanzi di poliziotti.

Non teme che questa definizione riapra la vecchia forbice fra letteratura maggiore e minore, alta e bassa, d'autore e di genere?

E' una vecchia battaglia che credo sia finita, anche se l'alone di letteratura di genere resta sempre come una sorta di peccato originale... Qualche lettore sprovveduto continua a dire: "Ah, una volta ho letto un romanzo di Agatha Christie...", qualche critico anziano alza ancora il sopracciglio..

Ma le sue letture di formazione quali sono?

Quelle classiche: Joyce, Pavese... Però, se dovessi indicare gli autori che non butterei mai, direi: Nabokov, Scerbanenco, Chandler, Ellroy, uno dei massimi. L'ultimo libro, "I miei luoghi oscuri", è un testo definitivo.

Entriamo nel tema del nostro incontro cominciando con l'associare un'immagine alla parola "trama".

Visivamente la parola trama mi fa venire in mente due cose: una ragnatela e un albero. Anche concettualmente mi fa pensare a due cose, una di partenza e una di arrivo. Quella di partenza è la definizione classica, per cui si parla di trama di fronte a una serie di eventi scelti dal narratore e incatenati fra loro. Una definizione, a mio avviso, fuorviante perché la trama non è solo questo, non è metaforizzabile solo dall'immagine de11'albero che inizia con delle radici, si sviluppa in un tronco e finisce con una serie di rami: un disegno tracciato e deciso dal narratore. La trama non è solo questo.

Perché ne esce un percorso troppo logico, troppo razionale?

Certo, troppo logico. Infatti la vecchia diatriba sul genere tra e chi usa la trama e chi non la usa, è proprio questa. Chi costruisce una trama è logico e razionale. Più narrativo, ma meno creativo. Chi non è portato a usare questo procedimento privilegerebbe invece la metafora della ragnatela. la creatività, l'attenzione ai particolari, e sarebbe meno razionale. Come se esistesse una sorta di antitesi. Se ci si pensa bene, non è così. Io credo che quasi nulla sia decidibile in anticipo. La trama è la storia così come viene raccontata dai personaggi, non come la pensa lo scrittore. C'è una sfumatura di differenza tra lo scrittore che pensa tutta la trama e lo scrittore che inventa una piccola cosa, sceglie una situazione, stabilisce che esistono alcuni personaggi o concetti, e poi li guarda. I personaggi all'interno della storia compiono azioni, parlano, secondo una logica che è molto coerente, se si è stati bravi ad allinearli e a pensarli, soprattutto prima di scrivere. Una Logica che non è quella dei fatti, ma quella del racconto che stai ascoltando. Allora sono loro, i personaggi, che raccontano una trama e che si muovono al1'interno di una determinata situazione. Sono loro che costruiscono la trama.

Nel senso che si comportano coerentemente con quello che sono, secondo la loro psicologia, i fatti che li riguardano o che gli accadono...

No, perché altrimenti saremmo di nuovo prigionieri del vecchio concetto di un comportamento logico, consequenziale. Io penso, semplicemente, che non sia giusto che uno scrittore si metta ad architettare un'intera trama. Ellroy diceva: "Su duecento pagine di romanzo, faccio duecentocinquanta pagine di scaletta". Non ci credo. Anche perché poi il romanzo è la scaletta che ha scritto. Che differenza ci sarebbe tra scrivere una trama e fare un romanzo di getto? In realtà penso che ascolti per duecentocinquanta pagine la storia che gli stanno raccontando i personaggi, la situazione, l'ambiente, tutto quello che ha messo di fronte a sé e che sta andando avanti per i fatti suoi.

La prima obiezione che insorge di fronte a una visione un po' rabdomantica di una trama che predilige la prospettiva dei personag gi, il loro punto di vista, è che, in questo modo, quasi necessariamente sparisce il narratore onnisciente. Tanto è vero che in "Almost blue", vi sono tre voci narranti, due dei personaggi, l'Iguana e il ragazzo cieco, e una del narratore che segue l'inchiesta insieme alla poliziotta. Adottando la sua logica a ragnatela scompare, dunque, il narratore che tiene le fila della trama?

Certo, il pericolo è questo. Con questa impostazione si rischia che le cose sfuggano di mano. Ma il narratore deve essere pronto a intervenire, deve prendere la storia come gli è stata raccontata e lavorarla, tagliarla, rimontarla. E' a quel punto che servono le scalette, e tutto quello di cui parlava Ellroy. Ovviamente se si è narratori strettamente di genere è più difficile lavorare in questo modo. Però è possibile. Uno dei romanzi che ho scritto, Indagine non autorizzata, mi era stato richiesto con tutti gli ingredienti del genere. I conti dovevano tornare, la suspense doveva funzionare al momento giusto. Il narratore a quel punto deve tornare indietro e riscrivere la storia come gli era stata raccontata dai personaggi, privilegiando un solo punto di vista.

Com'è possibile ascoltare quello che ha da raccontare un personaggio?

Ci si mette seduti al suo fianco, si prova a dargli un carattere, si cerca di capire come agirebbe se fosse calato in una certa situazione.

Può fare un esempio?

Lei prima parlava dei personaggi di Almost blue, ma devo confessare che per stare seduto al loro fianco, per capirli, per elaborarli, mi sono fatto aiutare dai detenuti del carcere "Due palazzi" di Padova dove ho tenuto delle lezioni. A loro ho portato i miei personaggi e ho detto: "Aiutatemi, perché io non riesco ad andare avanti". Sapevo che c'era il ragazzo cieco esperto di scanner, 9 scrial kifler che aveva le allucinazioni auditive, il serial killer che aveva le allucinazioni auditive, la ragazza che seguiva le indagini, che si sarebbero incontrati grazie a qualche cosa che aveva a che fare con lo scanner e quindi con l'orecchio. Sapevo che all'interno di questa situazione ci sarebbe stato l'inseguimento in cui si sviluppava la storia d'amore tra lei e il cieco, e poi sapevo che c'era una terza parte in cui tutto precipitava. Ero già andato a conoscere una serie di ciechi per cercare di costruire il carattere di un personaggio. Per l'altro, l'Iguana, ho fatto la stessa cosa. Sono andato da uno psichiatra e insieme abbiamo fatto una perizia psichiatrica su un uomo che non esiste, ma che abbiamo ipotizzato. Io gli davo gli elementi: ha venticinque anni, sente le voci, ha dei puntini luminosi sulla faccia. Lui cominciava a elaborare. Per la donna ho avuto molte difficoltà. E' stato più difficile identificarmi. Ho rotto le scatole a tutte le mie amiche.

In che senso è stata aiutato dai carcerati di Padova?

Mi sono presentato loro con 1 seguente quesito: questo è un cieco che non sa fare il cieco, non sa toccare e forse ha cattivi rapporti con i genitori. All'inizio doveva avere un padre che faceva il rappresentante. A quel punto ho chiesto ai carcerati: "Secondo voi questo cieco può avere un padre e una madre?". "No", mi hanno risposto "se avesse un padre e una madre sarebbe una famiglia normale". Bene, allora avrebbe avuto solo un padre rappresentante. "No", mi è stato obiettato, "se il padre fa questo lavoro, gira tutto il giorno e certamente gli ha messo qualcuno che lo assista, un'assistente sociale, una zia". Nelle scene che avevo già scritto lui era solo, ma la porta del suo studio si stava aprendo. Chi sarebbe entrato? "La madre", mi rispose uno dei carcerati e continuò: "Io vivevo con mia madre. Mi stava addosso continuamente e io mi sentivo ancora più solo". E' da lui che è nata la figura del cieco che vive con una madre iperprotettiva la cui ansia lo spinge a una solitudine ancora più forte. Insomma la trama si stava costruendo da sola. Ma arrivato a un certo punto, come spesso succede nei gialli, quella stessa trama rischiava di scoppiare e io stavo perdendo l'orientamento. Così ho disposto il progetto in modo tale da non perdermi. Ho preso un foglio grande e l'ho diviso in quadrati all'interno dei quali inserire l'argomento e di fianco mettevo delle frecce che andavano in una direzione piuttosto che in un'altra...

...La supplico, mi faccia un esempio...

Un esempio? Primo capitolo e sotto: Argomento: "Scoperta dell'omicidio", e poi tre frecce: 1. "Sembra che sia stato il tizio" 2. "Il proiettile non corrisponde" 3. "Le indagini non vanno avanti perché non gli danno l'autorizzazione". Ognuno di questi poteva diventare un riquadro che a sua volta poteva avere tre frecce... Se si continua a sviluppare questo schema, forse viene fuori la famosa scaletta di Ellroy, ma si sta già raccontando tutto. In ogni caso anche questa disposizione grafica non risolveva del tutto i miei problemi.

Perché?

Perché io concepisco una trama su tre livelli: una è la trama vera e propria, cioè tutti gli avvenimenti che accadono e che nel romanzo di genere diventa la trama gialla; un'altra è una trama psicologica, emotiva e sentimentale; la terza è la trama thriller, quel respiro fatto di suspense, colpo di scena, svelamento eccetera. Anche quella è una sorta di orologio. E' impossibile farle convivere contemporaneamente. Allora ho rubato un'altra tecnica. A Roman Polanski. Lui fa così: attacca a a una porta una serie di post-it con la scrittura delle scene; poi comincia a staccarli e a riattaccarli a seconda di come vuole montare il film. Ho cercato di capire se si potevano isolare le scene in blocchi cinematografici. I miei post-it erano di tre colori diversi, a seconda del livello di trama che volevo utilizzate: "Il cieco parla con sua madre" "il cieco e la ragazza s'innamorano", "l'Iguana uccide uno studente" post-it di situazione, di emotività e di tensione. Dopo, e qui c'è la trama dello scrittore, ho fatto quello che faceva Polanski: prendere tutti questi post-it e girarli, spostarli, montarli, come mi sembrava più efficace e bello per la narrazione. Era un po' come suonare la tastiera di quegli organi a tre ordini, girando una cosa, giravano anche le altre due...

Questo lavoro presuppone una grande familiarità con i topoi della trama, familiarità che sicuramente non possiede chi comincia a scrivere. Io vorrei, invece, che tenessimo presente un livello di esperienze minimo. Allora: è inevitabile, sì o no, che all'inizio di una storia ci sia un conflitto o un avvenimento che cambia o rischia di cambiare la vita dei personaggi, come si dice nei manuali di scrittura creativa, non solo gialla?

Direi di no. Per rifarci ai topoi, devo ammettere che quello che insegno a scuola è molto rubato al cinema. In genere si pensa alla trama come a una successione di eventi iniziali che arrivano a uno snodo narrativo, il famoso conflitto così che la vita del persdonaggo verrà cambiata. E' quindi la trama, che fino a quel momento è stata lineare, prende un'altra piega, fino al nuovo snodo narrativo, per cuj cambierà ancora una volta tutto.

Fino a quando non ci sarà uno scioglimento di una qualche natura...


Sì, quello lo decide l'autore, perché se dipendesse dai personaggi, loro continuerebbero. In effetti si potrebbe continuare all'infinito. Questo alternarsi di trama, snodo, trama, snodo, può a sua volta essere spezzettato, dentro ogni segmento narrativo, in piccole unità di misura alimentate da tre cose: mistero, suspense e colpo di scena. Facciamo un esempio di trama classica: un uomo torna a casa, suona perchè ha dimenticato le chiavi e la moglie non gli apre, tocca la porta e questa si apre: mistero, perchè la porta dovrebbe essere chiusa. Entra, ma da dentro sente lo scricchiolio di alcuni passi: suspense. Ora c'è un rallentamento del ritmo narrativo: passa correndo il gatto, l'uomo apre la porta e trova la moglie morta: colpo di scena e snodo narrativo. Arriva la polizia e trova una cosa che non ci doveva essere: mistero. Incolpano lui, quindi altro snodo narrativo e così via. Questi sono tutti concetti rubati al cinema. Non perchè la letteratura non li possieda, solo che il cinema li semplifica e soprattutto dimostra che funzionano. Riportati nella letteratura corrispondono a quella logica razionale di cui si parlava prima e che non va seguita così pedissequamente. In letteratura può non accadere che si debbano seguire.

Come si costruisce una tensione narrativa? Disseminando indizi, come avviene anche in trame "normali", non gialle o noir, ma attraversate da segnali più o meno sotterranei, da tracce che chiamano il lettore a un'attenzione maggiore?

Insieme ad alcuni giallisti abbiamo fatto una serie di studi a qesto proposito. Studiavamo il thriller, ma era un concetto utile anche in altre circostanze. Ci siamo rifatti a due vecchie concezioni. Una è quella di Hitchcock: sta per succedere qualcosa che io so e tu - personaggio - non sai. Ma l'abbiamo eliminata subito perchè abbiamo visto un sacco di film di tensione in cui questo meccanismo non c'era. Allora ci siamo rifatti all'altra: la tensione è il rallentamento del rito narrativo che ti mantiene in sospensione rallentando. E abbiamo scoperto che non è vero neanche questo. Così potrebbe fare Henry James in "Giro di vite" che rimanda all'indomani il racconto di una storia di fantasmi. Poi però ho letto "Lezioni notturne" di Stefano Massaron una raccolta di racconti in cui ce n'era uno che si chiamava "Conto alla rovescia". Due ragazzini escono dalla metropolitana e l'autore ci avverte che fra dieci minuti saranno morti. Questo è il primo snodo, insieme alla prima dichiarazione d'intenti dell'autore. E poi comincia con il conto alla rovescia in cui avverte: 9 minuti, loro fanno un sacco di cose belle; 8 minuti, parlano tra loro con tenerezza... e inizia a dare un ritmo sempre più serrato alle azioni, sempre più veloci. Anche i paragrafi lo sono, graficamente, fino ad arrivare, sempre più serrati verso la conclusione: meno 5, 4, 3, 2, 1... fino al momento in cui quei ragazzi attraversano la strada, vedono i fari di una macchina per pochi secondi. Insomma, c'era stata un'accelerazione. La tensione è data da una variazione del ritmo narrativo. Quando si comincia a raccontare una storia e si accelera o rallenta, si ottiene un effetto di tensione. variazione del ritmo. Il che da solo ovviamente non basta... Dipende anche dall'atmosfera in cui io calo questo tipo di azione "meccanica" - un tempo della tensione è la notte ad esempio -, e da quello che voglio raccontare. Naturalmente, se il racconto è brutto, questo espediente, che può essere anche molto facile, non serve a nulla.

Pensa che corrisponda a verità quello che si dice rispetto al nostro bisogno primario, atavico, di storie, di trame?

Sì, è uno degli istinti primordiali. Io so che da piccolo ascoltavo le storie e che se ho cominciato a scrivere è perché non potevo giocare più ai soldatini, e alla TV non davano quello che volevo vedere. A quel punto - a dodici anni - le storie o te le disegni, o le scrivi. E se ti metti a raccontare qualcosa a qualcuno prima o poi si ferma e ascolta. Direi che un buon modo per educare i ragazzini alla lettura è quello di mettersi a raccontargli la trama di un libro. In due minuti si ottiene la loro attenzione. Baricco in televisione faceva questo. Una volta andai in una scuola a Padova a presentare il mio libro, o almeno, io credevo che fosse per quello: ma, all'ultimo momento, avevano cambiato programma. Stavano inaugurando la biblioteca e io dovevo invogliare gli alunni a leggere. Mi venne in mente Baricco, il suo programma televisivo, e il meccanismo della suspense. E dissi a quei ragazzi: "Io vi racconto l'inizio di un libro. Se vi interessa andiamo avanti, se no lasciamo perdere e passiamo a un altro". Miracolo. Rimasero oltre un quarto d'ora dopo la campanella della quinta ora! Anche a questi ragazzini che odiano tutto e non leggono niente, piace sentirsi raccontare una storia.

Prima ha citato i pulpisti alcuni dei quali, penso ad Aldo Nove, hanno preso il modello televisivo, soprattutto quello pubblicitario, come struttura da imitare in modalità e respiri narrativi. Racconti di inquietante sociologia, più che di narrazione. E inevitabilmente corti, veloci, poco narrativi, appunto. Lei pensa che la televisione aiuti a raccontare delle storie?

Poco. Anche se ne ha raccontate di bellissime nel periodo degli sceneggiati: "L'isola del tesoro", "Il segno del comando". Ma avevano un altro ritmo che non è quello della TV. La TV racconta delle storie suo malgrado, il suo linguaggio non è quello delle storie. Iva Zanicchi racconta storie trash, ma sono narrazioni involontarie, turpi. Ha fatto una buona cosa Nove a scrivere racconti sulla televisione che hanno fotografato un momento particolare del linguaggio televisivo. Ma la televisione non può raccontare delle storie. Ha zavorre extralinguistiche - interessi diproduzioni, paura di perdere pubblico - che la bloccano. Una storia forte non potrebbe essere raccontata. Non potrebbero esserci serial killer né, tanto meno, carabinieri corrotti. Telefono giallo, parlo da giallista, è stato un bel modo di raccontare storie. Chi l'ha visto? era un po' più bieco, ma ha raccontato storie che potevano diventare romanzi.

Certo, però come se le raccontasse al grado zero, mentre potrebbe farlo in un altro modo. Potrebbe farlo con la finzione vera, mentre così siamo solo aggrediti dalla primarietà della storia e non abbiamo alcuna educazione alla narrazione.

Infatti la Tv riesce a raccontare delle storie, finché non si accorge che lo sta facendo. A quel punto le rovina.

P.S. Sto lavorando sull'intervista a Lucarelli. E' domenica mattina 31 agosto. Ore otto. Edizione straordinaria del telegiornale. Parigi. Lady Diana si è schiantata sulla macchina dell'amante arabo per sfuggire alla sua immagine pubblica. Quale romanziere potrebbe raccontare quella storia? 0 forse può raccontarla solo la televisione, una trama così trash e drammatica? Una trama della vita?