incontri d'autore / Carlo Lucarelli intervista James Ellroy
Magnifico! Vedo tutto noir
La vita. Le ossessioni. Le storie. Parla il grande maestro americano della suspense
(L'Espresso - 19 aprile 2001)
di Carlo Lucarelli

Giuro che avevo paura ad incontrare James Ellroy. Non per il personaggio, ex alcolista, ex tossico, ex topo d'appartamento ossessionato dalla morte della madre... E neppure per l'argomento dei suoi libri, tra i più duri, feroci e senza pietà che siano mai stati scritti. Quasi tutti i miei amici sono così e se dovessi giudicare uno scrittore dagli argomenti che tratta dovrei andare a cena con la pistola. No, è che fa sempre paura, e imbarazza un po', incontrare un maestro. Perché per gli scrittori della mia razza e della mia generazione, James Ellroy è un maestro. Con la tetralogia di Los Angeles è riuscito a dare uno degli affreschi più belli e più neri dell'America tra i '40 e i '60. Con la trilogia di Lloyd Hopkins ci ha regalato una delle figure più contraddittorie e complesse nel panorama dei detective. Con "American Tabloid" è riuscito a raccontare la metà oscura della storia americana - l'omicidio di Kennedy - con le categorie narrative, la tensione e la suspense del noir. Con "I miei luoghi oscuri" è riuscito a scendere così nel profondo dell'anima che credevo che dopo quel libro per lui non fosse possibile scrivere più niente. Adesso arriva con "Sei pezzi da mille", che riprende dove "American Tabloid" sì è interrotto, e riesce di nuovo a compiere il miracolo: tenerti incollato per più di 700 pagine con dialoghi serratissimi, azioni essenziali, documenti, colpi di scena ed emozioni, che passano attraverso gli anni che seguono la morte di John Fitzgerald Kennedy.

Cominciamo dai maestri. I miei sono un italiano e due americani. Giorgio Scerbanenco, Raymond Chandler e James Ellroy. I suoi?
Per me sono Dashiell Hammett e Don De Lillo. Il suo "Libra" è la diretta ispirazione di "Sei pezzi da mille".

E Chandler, niente?
No. Chandler scriveva trame poco plausibili, che spesso non tornavano. Era più che altro concentrato sulle stile. Scriveva dell'uomo che avrebbe voluto essere. Hammett invece scriveva dell'uomo che aveva paura di essere.

I suoi personaggi sono killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo coinvolte in affari bruttissimi, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Uno dei protagonisti di "Sei pezzi da mille" è Pete Bondurant, ex poliziotto, violento e feroce, che ammazza e tortura...
Ma non fa solo quello. Ama sua moglie Barb e quell'amore esiste, appartiene al personaggio e in un certo senso è qualcosa che dà speranza. Tutti i miei personaggi hanno uno scopo preciso come tutto quello che scrivo. Bondurant andava benissimo in "White Jazz" per far vedere la storia dei cubani e degli esiliati. Fa un'apparizione in "American Tabloid", e proprio per questo rapporto che aveva avuto con i "cubs" andava bene come personaggio anche per quel libro. Molti dei miei personaggi tornano perchè mi piace narrare storie ampie, corali, che abbraccino un grande spazio temporale. Non credo si debba sacrificare le trame per dare spazio ai personaggi e viceversa. Mi piacciono le storie, mi piace la lingua, mi piace il milieu e mi piace giocare su queste tre cose.

I suoi libri hanno stili diversi. "White Jazz" era sincopato, al limite della comprensibilità. "I miei luoghi oscuri" violentissimo e preciso. Chi sceglie lo stile? La storia?
I personaggi e la storia. "White Jazz" dal punto di vista stilistico è una narrazione in prima persona, frazionata e fratturata con omissioni e frasi incomplete ed è la voce di un poliziotto cattivo come Dave Kain, un bianco che butta dentro in tutto il be-bop della Los Angeles del 1958. Funziona solo per quel libro, che ho trovato attinente alla realtà del narratore e che non userò mai più. Lo stile di "Sei pezzi da mille" deriva da "American Tabloid": è uno stile che ho voluto così, molto dum-dum-dum, che deve impersonare la violenza della narrazione e la violenza della vita che vivono i miei personaggi. Dentro e al di fuori di se stessi.

E' vero che prima di scrivere costruisce scalette lunghissime?
La gabbia narrativa per "Sei pezzi da mille" era di 346 pagine. E' il risultato di ricerche, di note accurate e dei miei pensieri che metto sulla carta. Io so, prima ancora di scrivere la prima parola, come andrà a finire la storia e questo tipo di sensibilità mi porta ad ampliare e migliorare le descrizioni e lo stile. Devo solo aggiungere un 10-15 per cento ed ecco il libro.

E' questo quello che c'è in lui. Questa serena calma da professionista della scrittura? Parla tra sé, con estrema, naturale tranquillità. E' questo quello che c'è? Non lo so. A un certo punto dice...
Credo in una vita semplice e sana che ti aiuti a sviluppare il talento, a scrivere con metodo un certo numero di ore al giorno. Come Stephen King. Voglio scrivere libri migliori e più buoni. Vivere a lungo scrivere meglio, come Hemingway.

Nei suoi libri ci sono sempre personaggi storici, come Howard Hughes, Frank Sinatra. In certi romanzi sono quasi più i personaggi storici che quelli inventati. Quanto c'è di vero e quanto c'è di inventato in "Sei pezzi da mille"?
E' una cosa che non mi chiedo e che non mi voglio chiedere. Dov'è il confine tra realtà e fantasia? Io voglio creare una sovrastruttura per cui sia i personaggi che gli eventi possano essere allo stesso tempo fittizi e reali e non voglio che i miei lettori riescano a distinguere cosa è vero e cosa no. Voglio creare un affresco e confondere questi confini.

Noi viviamo in un paese pieno di misteri. E scriviamo di misteri, con rabbia e con passione. Lei ha scritto due libri sull'omicidio Kennedy. Qual è il suo rapporto con un mistero fondamentale come quello della morte di Kennedy?
Non me ne importa niente dell'omicidio di Kennedy, è stato solo uno degli omicidi politici di una lunga serie che va dal '58 al '68. Ho solo cercato di esprimere cos'è la vita. Le spiego cos'è la vita: è quello che fanno agenti della Cia, malfattori, informatori, poliziotti e politici corrotti, uomini dell'Fbi, pazzi dell'estrema destra, esiliati cubani. Una società chiusa che in un modo o nell'altro, perché si trovano in posti chiave, influenza moltissimo alla base quelle che sono le politiche pubbliche di tutti gli Stati Uniti. Non credo che l'America fosse innocente prima di JFK, la sua morte ha segnato un momento di transizione tra i fatti di "American Tabloid" e "Sei pezzi da mille".

Scrivere di queste cose serve a cambiarle?
Non me lo chiedo e non mi importa. Scrivo per me. Racconto storie.

Ne "I miei luoghi oscuri" arriva così in fondo da raccontare le cose più intime di se stesso e della sua vita, compresa l'autopsia di sua madre uccisa brutalmente da un maniaco. Non credevo che uno scrittore potesse arrivare così in fondo nel suo cuore.
Con quel libro non cercavo di scavare da nessuna parte. Non volevo esorcizzare nessun demone. Volevo solo scoprire chi aveva ucciso mia madre e nel fare questo ho dovuto scrivere pezzi della mia biografia. L'ho scritto per onorare mia madre. Non è stato un libro difficile: ho solo dovuto dire la verità.