a cura di Piero Negri
Icontro con Carlo Lucarelli
«I NOSTRI TEMPI COLORATI DI NOIR»
di
Alberto Laggia

L’autore di Almost blue, del recentissimo Laura di Rimini e di una dozzina di altri polizieschi spiega il successo della sua narrativa: «Racconto i misteri ai quali non perdoniamo di esistere, storie nelle quali è difficile distinguere i buoni dai cattivi. Parlano del nostro mondo: non è più il momento del giallista che crede in un mondo ordinato».

I suoi romanzi grondano sangue, zeppi come sono di morti ammazzati, trucidati, azzannati, scorticati da animaleschi serial killer che portano i nomi inquietanti di Lupo Mannaro, Iguana oppure Pitbull. Non per niente, nonostante la giovane età (41 anni), è il maestro indiscusso del nuovo noir italiano, il più prolifico (quindici titoli in dieci anni) e uno dei più popolari. Il suo Almost blue, che ha pure ispirato un film, ha già raggiunto le centomila copie: Lucarelli, insomma, è secondo solo a quel "mostro" di vendite che è Andrea Camilleri.

Per la vasta tribù dei lettori giallofili Lucarelli non ha certo bisogno di biglietti da visita: i suoi romanzi e racconti, da L’isola dell’angelo caduto a Un giorno dopo l’altro non possono mancare negli scaffali degli amanti del genere. Da qualche tempo, poi, il suo è diventato un volto televisivo: nella fortunata trasmissione Blu notte ricostruisce e presenta da par suo casi polizieschi reali, misteriosi e irrisolti. Dietro all’immancabile occhiale nero, dentro un soprabito nero, su giacca nera, su camicia nera.

Eppure, tolta la divisa d’ordinanza, questo giovanotto emiliano ha un aspetto rassicurante, molto poco noir, da bravo ragazzo, con una vita lontanissima dalle allucinanti esistenze dei tanti psicotici assassini che popolano le sue storie: «D’altra parte», commenta lui, «che volete che accada a chi vive da queste parti? Che cronaca nera può avere un paesino come Mordano? Al massimo potrei ambientarci una storia di satanisti».

Lucarelli risiede da tempo tra Mordano, borgo a una sgommata d’auto da Imola, e San Marino, zone queste in cui più del nero il colore di tendenza è il rosso. Quello della Ferrari, ovviamente. La passione per le storiacce e la "nera", comunque, nel caso di Lucarelli sono nate quasi contemporaneamente ai primi romanzi: «Subito dopo aver scritto L’estate torbida nel 1991, fui chiamato dal giornale locale di Imola, che mi affidò il compito di "coloritore della cronaca nera"».

Lucarelli doveva dunque trasformare lo scippo alla vecchietta in una storia da "sbattere in prima pagina": «Non ero un bravo giornalista», ammette, «ma la frequentazione con la Polizia e gli ambienti giudiziari mi è poi tornata utilissima per la scrittura dei romanzi». Cresciuto a romanzi di Stevenson e Twain, da sempre Lucarelli crea le sue inquietanti vicende in un caliginoso e umido studiolo zavorrato da libri e vecchie armi, la stanza in assoluto più noir della grande casa signorile in cui vive.


Ma noir si è dentro, prima che fuori. Non è così, Lucarelli?

«Lo scrittore noir è il narratore della metà oscura delle cose, dell’aspetto torbido e inquietante della vita in una città, in un’esistenza. Aspetti questi mai raccontati prima in Italia. Per questo forse siamo tanto di moda».


Da dove nasce la sua passione per il poliziesco?

«Alla base sta l’interesse per storie misteriose e avventurose che hanno tutti i ragazzi. L’incontro fondamentale, però, per me è stato con il giallista italiano Giorgio Scerbanenco e la lettura del suo I ragazzi del massacro».


Quali sono i trucchi della scrittura di suspense?

«Non dire subito tutto, è ovvio. Costruire un mistero veramente misterioso. Il quale, per esserlo davvero, deve anzitutto essere coinvolgente, cioè riguardare il lettore. Poi, deve trattare un caso irrisolto. Infine, inquietare, cioè toccare una delle sfere della nostra esistenza che faccia paura o che comunque ci metta a disagio. Insomma: deve essere un mistero a cui non perdoni di esistere. E infine non può mancare un ulteriore mistero che confonda le acque proprio quando sembra di essere vicini alla soluzione finale. Si tratta, come si vede, di tecniche di base comuni a tutte le narrazioni».


Eppure voi giallisti siete spesso considerati scrittori "di serie B". Quanto la infastidisce questo?

«Molto poco. Ormai tanti critici e tanti lettori non la pensano più così. E poi, se proprio vogliamo vantarci, apparteniamo a un genere che ha sviluppato un bellissimo modo per raccontare le storie, un genere che ha più d’un secolo e mezzo di vita, nato ufficialmente nel 1841 con I delitti della Rue Morgue di Edgard Allan Poe. Mi infastidisce piuttosto chi pensa a noi come a scrittori minori perché ha in mente solo il giallo classico, alla Agatha Christie. Sarebbe come se dicessi che Baricco è come Liala solo perché entrambi scrivono di sentimenti».


Qual è la vera differenza tra il poliziesco "giallo" e il noir?

«Nel giallo la domanda principale è Chi è stato? Chi scrive un giallo crede in un mondo razionale, normato da regole precise. Nel noir la domanda è Che cosa sta accadendo? È una domanda del tutto diversa, che non ha risposte certe e che è frutto di un tempo, il nostro, irrazionale. E poi anche le atmosfere sono diverse: il noir è più insanguinato, più torbido. Alla base c’è una considerazione morale: nel giallo i buoni sono ben distinti dai cattivi. Nel noir questa differenza è molto più sfumata: per esempio, a volte anche i poliziotti sono corrotti, come accade in alcuni miei romanzi».


Nel suo ultimo libro, Laura di Rimini (Einaudi), che cosa accade?

«Si tratta di un gioco letterario: un divertimento sulla costruzione della suspense. Ho cercato di prendere il personaggio più lontano possibile dalla classica dark lady di un noir. Mi è venuta in mente una studentessa di lettere, "alta, mora, carina" che assomiglia molto a una mia amica sceneggiatrice. E ho immaginato che cosa le sarebbe accaduto se un giorno, per errore, avesse portato via lo zainetto sbagliato, contenente 400 grammi di cocaina purissima, del valore di svariati miliardi. Anche così nasce un noir».


Alberto Laggia


«Camilleri,
attento a Montalbano»


Lucarelli, le piace Camilleri?

«Di lui mi piace il modo di raccontare, il suo particolarissimo linguaggio e il senso dell’umorismo. Bello è anche il personaggio di Montalbano, che però, paradossalmente, può diventare un punto debole. Un personaggio seriale di grande successo può rivelarsi troppo forte rispetto allo scrittore, può trasformarsi in uno stereotipo che basta a sé stesso e muore. Così è già accaduto al Carvalho di Vazquez Montalban o al Malausséne di Pennac: due autori che infatti non leggo più».


Lo stesso è accaduto all’Hannibal Lecter di Thomas Harris?

«Peggio. Il silenzio degli innocenti è un noir straordinario, così come il film omonimo di Jonathan Demme. Hannibal, al contrario, è uno dei più brutti libri mai scritti. Harris non lo voleva scrivere, gli hanno dato un pacco di soldi per farlo: ne è uscito un romanzo pessimo con un personaggio che l’autore non sente più».


Come si spiega il successo clamoroso, e ripetuto, di Camilleri?

«Non me lo spiego. Non fraintendetemi: i suoi sono bellissimi romanzi, ma molto difficili da leggere, per nulla popolari. Eppure, vende tanto quanto Tom Clancy, che scrive storie facili. È un po’ come Umberto Eco col Nome della rosa, con l’enorme differenza che il semiologo non è più riuscito a ripetersi con i successivi romanzi».


a.l.