Carlo Lucarelli


esordi
I miei esordi di scrittura sono diversi da quelli di pubblicazione. Ho esordito scrivendo a tredici anni, più o meno, una bruttissima storia fantastica. Ero solo in casa, non c'era niente da fare, alla tv non davano quello che volevo vedere, quindi... Non avrei potuto disegnare la mia storia perché non sapevo disegnare, e così l'ho scritta. Poi, dopo quindici anni di esperimenti - tutti falliti, direi - ho scritto la mia prima storia vera, Carta bianca, un romanzo che secondo me possedeva una "tecnica", qualcosa che avrei potuto proporre senza vergognarmi. Ho spedito tutto all'editore Sellerio, che mi ha chiamato e ha pubblicato il romanzo

rituali

Io vorrei fare quello che sostiene di fare Stephen King, anche se non credo sia davvero così: scrivere tutti i giorni, sempre, in modo regolare, sempre nella stessa stanza. In realtà non è vero: riesco a scrivere soprattutto sotto pressione, all'ultimo momento, anche perché gran parte del lavoro, per chi scrive gialli, è soprattutto la documentazione, la maggior parte del tempo sei fuori a parlare con persone e a cercare informazioni, poi torni a casa e hai tutto fortissimo nella testa - e scrivi quando puoi, in sostanza. Per cui i miei ritmi sono quelli: tutte le volte che posso. Può capitare che all'inizio di un romanzo scriva due righe al giorno, forse, e verso la fine del romanzo, come è successo per quest'ultimo, scriva invece diciotto venti ore consecutive, perché non si può fare diversamente.
Scrivo con il computer e mi piace proprio. Una volta scrivevo a mano. Non ho mai fatto il passaggio alla macchina da scrivere, ma da quando è uscito il primo computer, quello che aveva soltanto la videoscrittura, mi sono appassionato a questo mezzo che è in grado di modificare profondamente il modo di scrivere. Per me è molto bello: intanto è una cosa calda, che respira, e che hai davanti, e che è anche luminosa, e quindi è come avere davanti una persona. E' una cosa su cui puoi mettere le mani, quindi c'è anche una parte sensuale, e poi sul monitor puoi vedere la parola esattamente come la leggerà il lettore, con tutta la punteggiatura. Quello che si fa con la mano è molto diverso, è una serie di segni grafici, come un disegno che poi viene transcodificato in tutt'altro. E poi il computer ti offre la possibilità di tagliare, andare a capo, e mantenere sempre vivo quello che hai, in un altro file per esempio, di non buttarlo via. Per me è un supporto essenziale. E poi io scrivo con la musica per via del computer, perché il computer comunque respira, e dopo un po' il suo respiro diventa invadente, comincio a sentirlo, questo ansimare, e allora ho bisogno di una musica che cancelli quel respiro e si sovrapponga rendendo tutto uniforme.
Non scrivo ascoltando una musica che ha a che fare con quanto sto scrivendo, perché sono dell'idea, come altri scrittori, che la musica che ascolti entri in quello che scrivi, e molte volte non è detto che proprio quella musica lì debba entrare. Quindi preferisco ascoltare qualcosa che mi è quasi indifferente, oppure sintonizzarmi su una stazione radio e lasciare che vada, per poi accorgermi che sto ascoltando una stazione che trasmette valzer e mazurke, che non mi piacciono.


C'è un libro, inclassificabile, bellissimo, di Antonio Franchini, Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio 1996), che racconta di combattimento e letteratura, delle loro somiglianze e della loro diversità, del corpo che si scontra e del corpo che soffre. In questo libro si parla di ostea leukà, "ossa biancheggianti", e leggendo ci si accorge di trovarsi di fronte a una profondissima intuizione. Si tratta di questo: così come, nell'antichità, del corpo dei guerrieri greci caduti in battaglia e bruciati sulle pire, al dissolversi dei tessuti, della muscolatura, degli organi interni, sopravviveva, ancora immerso nel fuoco, solo un residuo biancheggiare d'ossa, ugualmente, l'esperienza della lettura - più esattamente della memoria della lettura, della memoria di una narrazione - dissoltasi l'impalcatura della trama, il contesto, la forma dei personaggi, genera, a suo modo, altre ossa biancheggianti, frammenti di memoria, microimmagini, istantanee (ma anche odori, rumori - riflessi sensoriali). Le ossa biancheggianti sono quindi "quel che rimane, via tutto il manto degli aggettivi e dei verbi, le finezze dello stile, i manganelliani 'astratti deretani' e le 'chiappe policrome'.

Sono soprattutto immagini o pezzettini di immagini legate a suoni, non tanto concetti o argomenti. A volte si può trattare di una persona che cammina per strada e alza la testa. Mi ricordo un racconto che ho scritto dove l'osso biancheggiante era semplicemente costituito da due persone che sotto una finestra alzavano la testa e uno aveva gli occhiali, e gli occhiali si velavano con il riflesso della luce. Poi, che il racconto fosse un poliziesco ambientato negli anni '40 e questi fossero due funzionari della Gestapo che arrestavano una persona che si nascondeva, questo è venuto dopo. Avrei forse potuto scrivere tantissimi racconti con tanti contenuti diversi ma quel racconto lì aveva (doveva avere) quei due uomini che alzavano la testa. A un certo punto un osso è un'azione e un suono, e questo si riempie di ossessioni, di cose che devi assolutamente raccontare perché diversamente il romanzo non esiste, perché fai il romanziere soprattutto per raccontare certe storie, quindi tanti motivi tutti più importanti però tutto parte da questa cosina qui. Certi racconti che ho scritto partono da un semplice incipit, che era il rumore prodotta da una mano sul tessuto di una calza, per esempio. So che avrei potuto scrivere tanti racconti in quel momento ma tutti avrebbero dovuto contenere per forza quel piccolo particolare, che era proprio quella cosa che ti fa venire voglia di scrivere un racconto.