C'era una volta un poliziotto a Vicolo del
Cinque... |
di Marco Fortini e Alberto Panicucci
Questa intervista non sarebbe stata la stessa senza il sostegno paziente (ed avventuroso) di Marzia Mazzeo e Daniele Pagliuca. Né, probabilmente, sarebbe stata fatta senza la grande gentilezza e la puntigliosa disponibilità di Beatrice Renzi. Grazie a tutti, ragazzi! Nella Giuria Nazionale dell’VIII Trofeo RiLL (ed. 2002) c’era, fra gli altri, Carlo Lucarelli, forse il più famoso giallista italiano, autore per di più di trasmissioni TV di grande successo, come Blu Notte e Blu Notte - Misteri Italiani. Visto che l’inizio del lavoro per il suo nuovo romanzo ce lo ha “strappato” per questo 2003, siamo riusciti (almeno!) ad incontrare Carlo lo scorso 24 giugno a Roma, a Trastevere, per un’intervista a 360 gradi davanti a un rinfrescante tè alla pesca… eccovi il report di quella chiacchierata, che speriamo risulti più divertente dell’incontro in chat con i lettori di Repubblica.it, svoltosi in quegli stessi giorni (^___^). (A) Vorrei iniziare con una domanda che mi pongo ogni anno, quando leggo i tanti racconti che ci arrivano per il concorso (soprattutto i meno belli, a dire il vero). Ecco: perché una persona scrive, qual è la molla che scatta e qual è la cosa che spinge a continuare, magari anche al di là del successo che si ottiene? Ci sono un sacco di molle che scattano. Una volta si faceva questa riflessione rispetto alle scuole di scrittura: perché la gente dovrebbe mettersi a scrivere e frequentare una scuola di scrittura per imparare a farlo? (questo lo dicevano alcuni scrittori, magari un po’ altezzosi..). Direi che possiamo fare questo paragone:
è come giocare a calcio. Lo
fai nel campetto sotto casa tua perché
ti diverti e perché ti fa stare
bene. Chiunque può mettersi a scrivere, il problema
è il passo successivo:
“Ritengo che quello che ho scritto,
che mi è piaciuto e mi ha fatto bene,
sia degno di essere letto da qualcun
altro”. E’ ciò che più o meno succede quando, normalmente,
si parla con qualcun
altro. Se mi viene in mente una cosa
che so già essere noiosa o sciocca
non la dico neanche, perché me ne vergognerei. Il problema è che molti non credono in quello che scrivono. Spesso capita che alcuni scrittori, prima di darti un loro lavoro, te lo spieghino. E’ un po’ come se volessero dirti: “So che ci sono dei difetti, so che fa un po’ schifo, però tu prova a leggerlo così”. Tutto questo è sbagliato, significa non credere in quello che si è fatto. In conclusione, tu mi chiedi cosa scatta.
Tante cose. Soprattutto
dovrebbe scattare una pura voglia,
quella di raccontare una storia a
qualcuno. (A) Alcuni studiosi hanno parlato, rispetto ai lettori, della “sospensione della credulità” (chi legge crede a quel che viene raccontato, anche se magari non è realistico). In un certo senso, adesso, tu stai dicendo che esiste pure la sospensione della credulità dello scrivente, non solo del lettore. Esatto. Molte volte è così. (A) Quindi un meccanismo perverso! Sì. O meglio: un meccanismo che dovrebbe essere sorvegliato prima di tutto da chi scrive. (M) Altrimenti scrivere rischia di diventare come la grata del confessionale: non vedi il tuo interlocutore, quindi parli a ruota libera. Infatti. Si dovrebbe ricordare che pubblicare una storia non significa solo stamparla su un libro ma anche “renderla pubblica”, nel senso letterale del termine. Quello che hai scritto non è più un tuo puro divertimento, non stai più giocando nel campetto sotto casa tua. Altrimenti è come se andassi a fare una partita fuori e fossi il primo a dire: “Guarda che non ho fiato, sono scarso e non me ne frega neanche un granché. Gioco solo perché spero di andare in Serie A”. Questo è un errore. Sicuramente l’avrete visto anche voi, io
l’ho visto in tutti i concorsi
in cui sono stato in Giuria: nei premi
si chiedono cose specifiche, ma
spesso arriva una caterva di roba che
non ha nulla a che fare con esse. Io
ho visto arrivare fumetti in un concorso
per radiodrammi! (A) Per quanto riguarda lo scrivere, tu hai dei rituali? Dei posti in cui ti vengono le idee, un po’ come Agatha Christie, che pensava le trame dei suoi romanzi nella vasca da bagno? Io ho un rituale molto semplice: quando devo iniziare una cosa reimposto la pagina del computer, quindi non è un granché come rituale. Potrei usare un foglio predefinito e invece no, mi metto lì a rimettere i margini tutte le volte che apro un file. E’ l’unico rituale. Quando scrivevo da ragazzino, magari a mano,
ne avevo altri, ma non me
li ricordo neanche più. So però che molti miei amici hanno i propri
rituali. (A) La paura della pagina bianca, del cursore che lampeggia sullo schermo, è diventata un topos letterario. Esiste veramente? Sì, sicuramente esiste. Però più che la paura
della pagina bianca (in
sé), è la paura dell’inizio. E’ un terrore che c’è, ma teoricamente è un terrore assurdo. La pagina bianca non c’è mai, deriva da una pagina bianca mentale, che hai pensato fino a quel momento, e da una pagina sporcata, che esisterà da quel momento in poi. Però so che esiste, perché pensiamo sempre di fare una cosa che sarà definitiva. Invece uno dovrebbe pensare che non c’è mai nulla di definitivo finché l’editore non viene a casa tua e ti porta via il libro… fino a quel momento tutto quello che scrivi è in continua elaborazione, quindi come fai a dare un inizio a questo procedimento? (A) E, arrivato alla fine di un romanzo o di un racconto, tu cosa fai? Anche in questo caso mi piacerebbe avere
qualche bel rituale. Alcuni ne
hanno: finiscono, festeggiano, escono…
Simenon faceva delle robe
stranissime. Se il romanzo che hai scritto funziona, provi
la stessa sensazione di
quando hai visto un film o hai letto
un libro che ti è piaciuto: continui
ad avere nella testa i personaggi,
te lo ricordi, magari la mattina dopo
te lo ricordi ancora; ti piacerebbe
che continuasse. (M) Stamattina ho comprato il tuo nuovo libro,
Il lato
sinistro del cuore. [Ride] Perché noi stessi diamo sempre quest’impostazione romantica. Ma in realtà non è così. Ciò non vuol dire che lo scrittore debba
essere da noi quello che,
spesso, è negli Stati Uniti. L’idea
del “professionista all’americana”,
del tecnico della scrittura, è sbagliata,
non è esattamente questo il
nostro modo di vedere. D’altra parte
è sbagliata anche l'idea dello
scrittore romantico, che scrive esclusivamente
sotto l'Ispirazione, che
più è difficile, più è individuale,
meglio è. Non è vero. C’era un grande narratore, Giorgio Scerbanenco,
che diceva: Per
scrivere basta averne voglia, come
stirare: se non ne hai voglia lo fai
male, se ne hai voglia lo fai bene. I racconti sono quasi tutti su commissione,
perché è raro che ci si
svegli la mattina e si scriva un racconto,
hai sempre delle limitazioni.
Se partecipi a un concorso ti devi
attenere ad un genere e ad un numero di
battute; se ti chiede qualcosa un giornale
non puoi consegnare 100
pagine. (A) E, direi, Il racconto, che chiude questa raccolta, sembra proprio fatto su commissione: una sola stringata pagina… ma è geniale. [Ride] Quello l’ho scritto per un concorso… un concorso in cui il racconto doveva stare in una cartolina postale, quindi avevo solo trenta righe di spazio, o meglio: io ero riuscito a farci stare trenta righe. Così mi è venuta in mente quella storia… se non me l’avessero chiesta, non mi sarebbe venuta in mente! (M) Scendiamo invece più nel tecnico: si sceglie il genere che si scrive? E tu, hai scelto di scrivere gialli? No, io credo di no. Non lo scegli. E’ come
per il lettore, che non
sceglie il genere di libri che gli
piacciono. Scegli i libri che vuoi
leggere, però non scegli il genere
che ti piace. Dopo un po’ che leggi ti
accorgi che preferisci una storia ad
un’altra e, se poi ti chiedono
perché, puoi anche metterti seduto
a razionalizzare. Puoi dire che ti
piace il modo in cui viene raccontata,
che ti piace la sensazione che ti
dà o che in questo momento ritieni
importante sentirti raccontare certi
argomenti. Sarebbe negativo, invece, dire: “Io sono un autore di gialli perché vanno di moda”. E’ sbagliato far prevalere, “a forza”, certi indirizzi, certe impostazioni. Lo stesso discorso vale anche per i concorsi.
C’è un molta gente che fa
tutti i concorsi. Io non farei mai
un concorso, che so, di racconti
d’amore: non mi vengono in mente, non
saprei come farli, non sono adatto.
Però, l’avrete visto anche voi, ai
concorsi arriva una quantità enorme di
roba e di alcuni ti chiedi proprio
perché l’hanno fatto. (M) Qualche tempo fa, nella prefazione de
L’almanacco del
delitto, un’antologia di vecchi racconti gialli
italiani della
Sellerio, ho letto questa affermazione
di Savinio, che mi ha colpito
molto: “il giallo italiano è assurdo
per ipotesi”. Tu cosa ne pensi? Prima di tutto, l’affermazione di Savinio
era sbagliata. Inoltre, quando Savinio scriveva quella frase, negli anni ‘30 credo, di fattacci ce n’erano tutti i giorni. Se avesse seguito la storia di Girolimoni, ad esempio, di un innocente accusato di essere un serial killer, di un poliziotto sbattuto lontano perché aveva scoperto il vero colpevole (che era un prete tedesco), allora solo quella storia gli avrebbe fatto capire che non è solo negli Stati Uniti che si ambientano i gialli, ma anche in Italia. Bastava che leggesse i giornali. E’ vero però che il giallo classico è di
tradizione inglese. Per quanto riguarda, infine, il primo giallista italiano, mi sembra sia l’autore de Il Cappello del prete... ma non ricordo il nome (nemmeno noi!; NdM&P) (M) Sellerio includeva tra gli autori dell’antologia anche Luciana Peverelli, che era in realtà una scrittrice di romanzi rosa. Ecco un’altra cosa che mi ha colpito: l’ingenuità di questi primi racconti e di questi scrittori italiani di giallo. Non sembravano molto convinti di quello che facevano nemmeno loro… non avevano le idee molto chiare e oscillavano tra Agatha Christie e l’hard-boiled school, senza provare ad esprimere una propria identità. Secondo me uno dei primi ad essere concretamente
un giallista italiano
è De Angelis, che avrebbe potuto fare
molto di più se non fosse stato
ucciso dai fascisti. Il primo vero autore di noir italiano, però,
è Scerbanenco. E siamo
agli anni ’60, benché racconti cose
che sarebbero potute accadere
sicuramente già vent’anni prima. (M) Poi il giallo italiano ha assunto una coloritura per così dire municipale; è come se ogni città avesse un po’ le sue voci, forse a parte Roma, dove non sembra esserci ancore una “scuola”. Beh, una scuola c’è anche a Roma, però essendo una metropoli si identifica meno facilmente come romana. Basti pensare ad autori come Di Cataldo, Santini e altri ancora. (M) Per quanto riguarda invece le ambientazioni, perché molti tuoi romanzi si svolgono durante il Fascismo? Essendo un momento storico che conosco (anche
la mia tesi di laurea era
sul Fascismo) mi è più facile raccontarlo;
inoltre è un momento importante
della storia italiana, non si può dimenticare.
Lì ci sono le radici di
realtà che viviamo adesso, molti dei
nostri problemi vengono da quel
passato irrisolto, quindi è interessante
per me raccontarlo. (M) E’ anche una sorta di rivalsa per tutti gli autori che non hanno potuto raccontare gialli proprio negli anni ’30? Forse sì, anche. Ecco una risposta a Savinio: se i nostri libri funzionano, miei o ad esempio di Gori, allora vuol dire che Savinio si è sbagliato perché sono ambientati esattamente quando viveva lui. (A) L’altro giorno ho sentito il tuo intervento alla trasmissione radiofonica Atlantis, dove si parlava della letteratura del mistero. Tu dicevi che, nel tempo, in questo genere la soglia della paura è salita progressivamente, si è spostata verso l’alto, via via che si evolvevano le paure. Ma… se un giorno la paura finisse? Sarebbe un problema. Non credo però che la
paura finirà mai. Se finisse
la paura vorrebbe dire che è finito
il mistero, che conosciamo tutto.
Sarebbe negativo, un po’ come se uno
scrittore avesse la coscienza che
quello che ha appena scritto è il capolavoro
assoluto della sua vita e da
lì in poi tutti i suoi libri saranno
un po’ meno belli di quello. Sarebbe
un dramma, significherebbe che dovrebbe
smettere. (A) Il tuo ultimo libro è una raccolta di racconti. Uno di questi è uscito anche su Micromega, con cui hai collaborato più volte. E’ una rivista che negli ultimi due anni è stata anche un po’ sugli scudi… puoi parlarci di questa esperienza? Beh, è stato importante. Conoscevo Paolo
Flores d’Arcais, ma non
approfonditamente, però quando mi hanno
chiamato, prima per chiedermi un
racconto, poi un’intervista, ho accettato
con piacere perché erano sempre
collaborazioni relative a temi che
mi sembravano importanti, come la
giustizia. Era il decennale di Mani
Pulite. In realtà, però, quando si scrive si fa sempre la stessa cosa, non si fa nulla di diverso quando si scrive per una rivista come Micromega: ai fini del racconto non cambia nulla. Certo, io sono stato anche al Palavobis, ma questo va al di là della scrittura, ci sono andato come cittadino, per dire “ci sono anch’io”. (A) Un’attività diversa dallo scrivere sono i programmi televisivi che fai da anni… come è nata l’idea di farli? Mi hanno chiamato Carlo Freccero e Simona Gusberti, che volevano un programma sulla cronaca e volevano che a farlo fosse uno scrittore. E’ nata semplicemente così, io non ci avrei mai pensato. (A) La puntata che hai amato di più tra quelle che hai fatto? Ce ne sono tante. Una delle più belle è sicuramente quella sulla strage di Bologna, una di quelle che ci ha colpito di più. Anche quella su Ustica era una bella puntata o quella sulla Mafia, una delle ultime. Prima ancora c’è stata quella su Francesca Alinovi, un omicidio accaduto a Bologna… insomma, tante. (M) C’è una puntata che non hai ancora fatto e ti riprometti di fare in futuro? Beh, si ci sono tutte le puntate sui misteri vaticani che sarebbe stato carino fare, ma… [ride] Ci sarebbe da vedere la storia più recente, come le stragi; ci sono anche una serie di piccoli casi di omicidi che non siamo riusciti a fare perché non avevamo sufficienti carte da guardarci. Vedremo se riusciremo a farli. (A) Quello di scrittore è un lavoro che si fa da soli, invece un programma televisivo è anche un lavoro d’équipe, che sfrutta un mezzo che ha un suo stile e suoi tempi. Uno scrittore che va a fare televisione può incontrare quindi dei problemi, forse… tutto questo tu come l’hai vissuto? In maniera non così drammatica. Per quanto riguarda la scrittura pura, sono solo io che scrivo e poi racconto al pubblico quello che ho scritto. Non faccio niente di diverso dallo scrivere un romanzo… non saprei fare in un modo diverso: io racconto una storia esattamente come la scriverei per un racconto, l’unica differenza è mi fanno usare anche altri mezzi. Inoltre bisogna essere un po’ più semplici,
appena un po’, perché
quello che ascolti è diverso da quello
che leggi: in un romanzo avrei
tanto spazio per descrivere un concetto,
mentre in TV ne ho poco e devo
essere certo di essere chiaro. (M) Forse esiste anche un passaggio successivo: uno scrittore di romanzi che fa televisione poi trae dal suo programma televisivo due libri, Mistero in blu e Blu notte, misteri d’Italia. E’ un po’ un cerchio che si chiude? Sì, forse è proprio così. (M) Un passaggio più facile? Sì, da una parte sì, perché ho ripreso lo
stesso materiale. I testi li
avevo scritti in una chiave più o meno
letteraria, narrativa diciamo, e
funzionano anche letti. (A) Una curiosità: all’inizio di Blu notte, misteri d’Italia parli di una lettrice, a cui dedichi, in modo bellissimo, il libro. Puoi dirci di più? Non c’è molto da dire. E’ una bambina che,
quando mi ha portato un
libro da firmare, al Festival Letterario
di Mantova, aveva fatto molta
fatica, e si vedeva che non stava molto
bene. (A) Torniamo al tema del “mestiere dello scrivere”… un esordiente, nel mondo del giallo o nel mondo letterario italiano, da dove deve iniziare, come deve fare per farsi pubblicare? Dovrebbe scrivere meglio che può e poi cercare
di farsi leggere. Sembra
una sciocchezza ma è così. C’era un editore, Marcos y Marcos, che secondo
me faceva una giusta
domanda: a chiunque gli chiedeva se
poteva inviargli un proprio
manoscritto chiedeva di citare cinque
titoli che la casa editrice aveva
pubblicato. Non saperlo significava
che l’esordiente non sapeva cosa
facesse Marcos y Marcos, quindi non
aveva senso che gli inviasse
qualcosa. (A) E dei concorsi letterari tu cosa pensi, in generale? Quando sono fatti bene funzionano. In realtà, questo è un lavoro che dovrebbero fare le riviste e invece non lo fanno, perché qui da noi non ce ne sono tante, per lo meno conosciute. Alla fine qui in Italia la selezione, per uscire, per confrontarti, è affidata ai concorsi letterari o ai piccoli editori. (A) Quest’anno tu sei proprio nell’organizzazione di un premio letterario collegato ad Arezzo Wave, un festival molto famoso in ambito musicale… cosa ci puoi dire? E’ stato molto interessante, tutti i concorsi
sono interessanti. Il concorso di Arezzo Wave dimostra che due campi sempre considerati diversi, la musica e la scrittura, sono in realtà vicini. Chi ascolta un certo tipo di musica non è detto che non legga un certo tipo di letteratura, anzi molte volte chi ascolta musica come quella che c’è ad Arezzo Wave scrive. Anche l’esperienza al Trofeo RiLL è stata interessante. E’ passato un anno, ormai, ma ricordo che anche in quel caso c’erano delle cose giuste. I concorsi, penso, sono (anche) una testimonianza di quel che sta succedendo intorno a noi; consentono di vedere quello che c’è, che altrimenti si potrebbe scoprire solo leggendo i libri che sono in libreria, che però raccontano soltanto una parte minima del mondo della scrittura, non il mondo sommerso; i concorsi servono proprio a questo, a vedere cosa sta scrivendo e cosa sente la gente: sono un modo per capire cosa c’è sotto. (A) Molti giurati del Trofeo RiLL, un anno fa, sono rimasti stupiti di quanto il tema della morte ricorresse nei racconti finalisti: protagonisti che erano dei morti, oppure persone che stavano per morire, non-morti che camminavano… secondo te questo riflette in qualche modo il momento che stiamo attraversando? Non me ne stupirei, è uno degli argomenti più in voga. La letteratura fantastica o di genere serve sempre a raccontare l’inquietudine del momento, in un modo o nell’altro. (M) E forse non è un caso che quest’anno sono aumentati i racconti “alla Blade Runner”, proiettati in un futuro da Grande Fratello, dove il lavoro è alienante, massificato… Se vivi nel nostro mondo hai paura per quello che ci sarà, non sei sicuro del posto di lavoro, ti chiedi che succederà alle televisioni. Hai visto alcuni fatti e ti chiedi se non ci sia uno stato di polizia… Tutte queste paure passano anche nella scrittura, che diventa un sintomo rivelatore di quello che succede. (A) Quest’anno non ti avremo in Giuria… perché stai iniziando il lavoro sul tuo nuovo romanzo, che ti porterà anche all’estero. Puoi darci qualche anticipazione? Quando uscirà? Di cosa tratterà? Quando uscirà non lo so, devo ancora iniziare! Non ho una scadenza, quindi vedremo. Sarà un romanzo ambientato in Eritrea nel
1895, durante il periodo del
colonialismo italiano. (M) Un’ultima domanda. So che ti interessi
di musica, e questo
traspare dai tuoi libri, che hanno
spesso colonne sonore (penso ad
Almost Blue, un romanzo che si può anche ascoltare,
ma
anche ad altri, come quelli ambientati
durante il Fascismo, dove ricorrono
le canzonette del Ventennio). [Ride] (A) Carlo, come vedi qui c’è qualcuno che ha studiato! Quando ero piccolino stavo in un gruppo,
come tanti. Facevamo robe
strane, era il periodo punk, ma c’è
stato anche un periodo rap in cui
abbiamo fatto qualche cosa senza essere
dei rapper. (M) E il pezzo è reperibile? Sì, purtroppo sì, perché fa schifo come le
cose che facevamo noi.
Cosa dite? Non abbiamo parlato del poliziotto
e di vicolo del Cinque?
Quelli del titolo? |