SCRIVERE È TRE COSE
Luca Lorenzetti intervista
Carlo Lucarelli
tratto da "Un posto per scrivere - Indagine sulla scrittura creativa in Italia" di Luca Lorenzetti (Prospettiva editrice) ISBN 88-87926-90-5 pag. 135 - Euro 10,33




Stiamo assistendo in questo periodo a una fioritura mai vista di laboratori e scuole di scrittura: secondo Lei qual è il motivo? E soprattutto, perché ora e non prima?
Ho notato che fino a qualche tempo fa l'industria editoriale era attenta soprattutto ad autori ormai adulti e affermati, ed era difficile, soprattutto per i giovani, avvicinarsi alla scrittura. In questi ultimi anni invece il successo di autori esordienti ha catalizzato un'attenzione maggiore, nuova direi, da parte delle case editrici nei confronti dei giovani scrittori, e ha portato ad avvicinarsi alla scrittura un sacco di gente. Ad avvicinarsi con speranze. In realtà chi frequenta il laboratorio di scrittura è l'aspirante scrittore, cioè il giovane scrittore esordiente, che adesso vede attorno a sé un sacco di altri giovani scrittori che ce la fanno, che vengono pubblicati, e pensa: "beh, perché non io?". Certo, se uno si avvicina ad un laboratorio dicendo non me ne frega niente di scrivere, però vedo che gli scrittori vivono bene, vorrei farlo anch'io, vedo di imparare un mestiere come potrei imparare a fare l'idraulico, l'elettricista, qualunque cosa, e scelgo quello perché mi piace di più, allora non funziona. Questo probabilmente perché gli stimoli a sognare non mancano, dopo il grande successo commerciale di alcuni esordienti. L'editoria all'americana, per cui lo scrittore segue il corso di scrittura creativa, in cui gli insegnano come si fa un romanzo alla Stephen King, e dopodiché lui confeziona il romanzo, è un mito. Perché chi fa così sono i grandi scrittori americani di best-seller, che sono già grandi scrittori, voglio dire, sono già nel meccanismo dell'editoria. Che producono sì delle cose molto belle, ma ci sono anche quelli deteriori. Ma questo è un mito americano. Da noi il giovane esordiente, che si metta lì e pensi prima qual è la ricettività del mercato e qual è il tipo di prodotto che sfornerà, beh... intanto si trova in concorrenza con tanti altri giovani esordienti, che magari hanno scritto il romanzo nelle corde giuste, e più bello del suo. Per cui è perfettamente inutile che facciano questo ragionamento. Per poi inserirsi comunque in un mondo che è sempre precario, aleatorio, poco remunerativo. Se uno deve fare discorsi commerciali, è meglio che lasci perdere questo mestiere. Tanto vale che scriva divertendosi.

Chi resiste fino alla fine dei suoi corsi, quello che vuole imparare a scrivere o quello che vuole pubblicare?
No, credo sia quello che vuole imparare a scrivere. Semplicemente perché quello che vuole pubblicare e basta raramente resiste alle critiche: ha già scritto un romanzo nel cassetto, non l'ha mai letto, probabilmente non l'ha mai riletto, non l'ha fatto leggere a nessuno ed è convinto che sia perfetto. E questo alla prima critica se ne va. Oppure dice non m'interessa, queste cose le so già. Chi vuole pubblicare e basta in genere è un po' presuntuoso. Chi invece vuole imparare a scrivere ha quell'atteggiamento di umiltà e di passione per la scrittura che è necessario. Del resto, non credo che sia necessario nessun altro requisito per chi si avvicina ad un laboratorio se non l'amore, la passione per la scrittura. Si può imparare a scrivere per la lettera, per il tema, per il romanzo, per la grande poesia universale: l'importante è che ci sia questo amore.

Con quali aspettative dovrebbe avvicinarsi ad un laboratorio un aspirante scrittore?
La filosofia di chi frequenta un laboratorio di scrittura creativa dovrebbe essere la stessa del ragazzo che va alle scuole di calcio del campetto parrocchiale. Si interessa di calcio e rimane in forma. Penso che scrivere sia fatto di tre cose: la passione per la scrittura, il talento, cioè il fatto di esserci proprio portati, e la tecnica. Ecco, nei laboratori si può coltivare la passione per la scrittura facendo in modo che questa cresca sempre di più e che dalla conversazione venga reciprocamente una gran voglia di scrivere. E poi si può coltivare la tecnica, questo sì, per essere in grado di risolvere i problemi. Il laboratorio come lo intendiamo noi si basa su questa dinamica: incontrare dei problemi di scrittura e vedere come si possono risolvere. L'importante è la strada che si percorre, è da lì che nasce la consapevolezza. Alla fine, il prodotto finale deriva da questa, e cambia in funzione di questa. Il vero valore formativo è quello della consapevolezza acquisita.

Lei è anche insegnante di "thrilling" alla scuola Holden di Torino. In che cosa consiste questa disciplina?
Alla Holden insegno come si racconta qualunque cosa voi vogliate raccontare, a partire da una storia d'amore fino a, soprattutto, una storia noir, secondo le categorie narrative della letteratura di genere, ovvero il mistero, la suspence, il colpo si scena, lo scoglimento finale; tutti elementi, questi, che secondo noi che pratichiamo questo tipo di letteratura servono a tenere il lettore attaccato alla pagina, e a sviscerare certi argomenti con un certo ritmo che di solito è molto veloce. Io e i ragazzi analizziamo un sacco di autori che hanno scritto letteratura di genere, da Stephen King, a Scerbanenco, a Chandler e analizziamo quelle che sono le tecniche, i trucchi di laboratorio, gli espedienti, i piccoli strumenti del mestiere, soprattutto mettendoli in pratica, cioè cercando di scrivere storie, anche brevissime, utilizzando quel tipo di effetti, e sperimentando se questi effetti funzionano immediatamente su noi stessi che li scriviamo. Questo secondo me è importante, non solo perché io pratico e amo un certo tipo di letteratura, che con le regole e la tecnica ha molto a che fare - la regola del genere - ma anche perché penso che sia importantissimo per chiunque scriva. E' vero che la scrittura è una magia, ma come tutte le magie non funziona se non c'è una iniziazione, uno studio dei riti, soprattutto una frequentazione di maghi, per rimanere nella metafora. Si potrebbe quasi dire che la scrittura è una sorta di alchimia che si impara in laboratorio. Un'altra cosa secondo me molto importante è questa: all'interno di questo piccolo laboratorio si ha modo di rimanere sempre in contatto con quella che è la cosa che ci interessa di più - a me personalmente e sicuramente a chi frequenta una scuola come questa - che è la scrittura: il fatto di viverci in mezzo, di respirarla giorno per giorno, di stare vicino ad altra gente, altri maghi che, all'interno del laboratorio di alchimia, praticano la stessa cosa. E' importante crederci insieme, costruirla passo per passo.

Nel '97 a Cattolica ha coordinato una scuola di scrittura per una classe di scuola media e una di quinta elementare. Tema: il giallo. Come era impostata questa esperienza didattica? E quali sono stati i risultati?
L'esperienza con i bambini della scuola di Cattolica è stata fantastica, soprattutto con quelli della quinta elementare. La necessità di fare discorsi diretti, semplici e senza tanti riferimenti a libri e film che non potevano ancora conoscere ha ridotto i meccanismi del thriller ad una sobrietà veramente "elementare", che i ragazzi hanno recepito immediatamente... credo anche perché la tensione, la suspense e il gusto dell'avventura forte sono nel DNA stesso dell'immaginario e dell'immaginazione di quella età. Ne sono uscite storie molto belle, alcune delle quali immediatamente pubblicabili in una collana per ragazzi che le avesse volute. Un paio di idee le avrei rubate volentieri anch'io.

C'è sempre il fantasma di un lettore durante la composizione?
Si, secondo me si. Chiunque scriva, anche la cosa più intima e nascosta. Basti pensare al diario: ognuno lo scrive pensando che prima o poi qualcuno glielo leggerà, e quindi già scrive per un lettore. La scelta di una parola piuttosto che un'altra è sempre fatta in funzione anche del lettore. Io sono dell'idea che chi scrive, scrive 'in tre', cioè ci sono tre persone mentre un autore è all'opera: lo scrittore, la cosa che sta scrivendo - il personaggio, il romanzo, che si scrive da solo - e il lettore seduto davanti che lui ha in mente. Però questo non vuol dire scrivere commercialmente, vuol dire comunicare, pensare alla comunicazione.

Qual è il confine tra le due cose?
Dipende dall'atteggiamento dello scrittore. Se lo scrittore pensa ad un lettore come ad una persona che cercherà di capire quello che lui sta scrivendo, la persona alla quale lui vuole comunicare quel tipo di messaggio, allora l'atteggiamento è positivo. Se il pubblico è qualche cosa ancora di indistinto con il quale lo scrittore dialoga, contribuisce a formare quello che sta scrivendo. Se invece si pensa al lettore come ad un target, ben definito ed individuato comunque si arriva ad una scrittura volutamente commerciale: scrivere esclusivamente per un pubblico e sapere già esattamente che scrivi per la tua zia Pina che ti sta seduta davanti vuol dire scrivere una cosa comprensibile solo a lei e soprattutto commerciale. Io sto comunque dalla parte della letteratura popolare, che è ottima letteratura, perché - per citare Marcello Fois - "è il meglio che si può, per il maggior numero di persone", quindi non esclude nessuna delle due cose.

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Mi chiamo Luca e sono nato nel 1975 ad Ancona, città dove vivo. Sono giornalista pubblicista e svolgo oggi l'attività di consulente della comunicazione.
Collaboro con testate nazionali tra le quali "il Messaggero" e "il Giornale dello Spettacolo", ed dirigo la testata "GoMarche.it", primo quotidiano telematico delle Marche.
Anche se ancora non mi sono mai cimentato seriamente con la scrittura creativa, l'argomento mi ha sempre interessato fortemente.