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I fumetti, che fatica...
Intervista a Carlo Lucarelli
di Tito Faraci


Ho inseguito telefonicamente Carlo Lucarelli per una settimana. Mentre lui era bloccato a Los Angeles, fra le “vittime” della nube nera arrivata dall’Islanda che aveva bloccato tutti i voli. Così adesso, cominciando la nostra chiacchierata, devo resiSacha Rosel, Carlo Lucarelli e Mauro Smocovichstere alla tentazione di andare fuori tema per chiedergli subito se, in base alle sue informazioni, non si sia trattato di una gigantesca cospirazione. Si sa, questo è il suo campo.

E i racconti del brigadiere Leonardi risalgono al 1992, quando Carlo Lucarelli muoveva i primi passi sul confine fra il giornalismo investigativo e la narrativa di genere. È giusto allora cominciare la nostra conversazione da qui...
Come ricordi quei tempi pionieristici?

Bologna e tutta l’Emilia Romagna scoprivano il noir e, soprattutto, scoprivano di essere noir. Si cominciava a parlare di infiltrazioni mafiose, per esempio. Di una delinquenza nuova, collegata anche al fenomeno dell’immigrazione. Ed erano gli anni della Uno Bianca, che avrebbe generato un gigantesco shock.

Tu allora scrivevi per Qui, il settimanale di Ravenna sul quale è nato il brigadiere Leonardi...

Esatto. Ma ancora più importante è stata la mia collaborazione con il Sabato Sera, per il quale tutte le settimane facevo il giro della nera, frequentando poliziotti e carabinieri alla ricerca di notizie. Questo mi permesso di incontrare gente come il brigadiere Leonardi o anche l’ispettore Coliandro. In fondo, quei due si assomigliano un po’. Hanno origine da persone vere, che ho voluto mettere nelle mie storie.

Quando è avvenuto questo passaggio dal giornalismo alla narrativa?

A un certo punto non mi sono più bastate le settanta righe che avevo per ogni articolo. Con troppi limiti e mille cautele, per evitare di ricevere una querela alla settimana. C’erano cose che però andavano raccontate. Bisognava farlo, anche se la gente non voleva crederci. E non ci riusciva. La mafia a Bologna? Figuriamoci! A Milano, al massimo, ma non qui da noi! E invece c’erano mafia, traffico di droga, riciclaggio... Una criminalità nuova, che doveva alimentare una narrativa nuova. A questo è servito il “Gruppo 13”, che ho fondato assieme ad altri autori miei amici. Prima di noi, solo Loriano Macchiavelli aveva affrontato certi temi.

Tornando al brigadiere Leonardi, in gran parte delle storie, più che essere il protagonista, è il testimone.

Sì, in questo è molto noir. È un uomo che cammina, che guarda e ascolta. Il racconto più emblematico, in tal senso, è Il falegname. Non fa altro che stare lì, a sentire. Semplicemente, ha la fortuna di trovarsi al posto giusto.

Grazie a Leonardi, la tua strada torna a incrociare quella del fumetto. Dopo Coliandro, Dylan Dog, Cornelio... Che effetto ti fa?

È una cosa di cui sono molto fiero. Ho sempre guardato con ammirazione al fumetto. Lo trovo così... difficile. A scrivere per il cinema o per la televisione, alla fine in qualche modo ci si riesce. Ma sceneggiare fumetto è un’impresa. È una fatica.

Questione di punti di vista. Ti assicuro che a chi fa fumetti sembra difficilissimo scrivere narrativa.

Sarà. Comunque, i fumetti hanno avuto un’enorme influenza sugli scrittori italiani di noir della generazione a cui appartengo. Un’influenza spesso non confessata. Chissà perché, nelle interviste citiamo sempre Scerbanenco, ma mai, per esempio, il Magnus dello Sconosciuto. Ecco, quello io posso metterlo fra le cose che mi hanno insegnato di più. Erano storie ambientate in un’Italia corrotta, con servizi segreti deviati e complotti politici. Non avevo mai letto nulla del genere, prima.

Un’ultima cosa. Quella nuvola nera, che ti ha bloccato a Los Angeles...

Oh, quasi una fortuna! Me ne sono rimasto lì una settimana di più, in vacanza. Ho finito di vedere tutta la città. Che per uno scrittore di noir dovrebbe essere il massimo. Io però preferisco Las Vegas. È più divertente e perfino più interessante.