Dati personali di Carlo Lucarelli scritti da lui medesimo (2002)

Nome: Carlo Lucarelli
Età: per adesso ancora 42
Professione: scrittore (c'è scritto anche sulla carta d'identità)
Libro (letto) che gli ha cambiato la vita: "I ragazzi del massacro" di Giorgio Scerbanenco (lo so, faceva più intellettuale l'Ulisse di Joyce ma io sono un giallista...)
Eroe dei fumetti più amato: Elektra Assassin
Il giocattolo dell'infanzia: i soldatini piccoli
Film culto: I Duellanti
Piatto preferito: gli spaghetti in tutti i modi
La bevanda che ordina più spesso: un succo di frutta all'albicocca (dovevo dire un wiskey?)
In tv non sopporta... il privato e i pettegolezzi sul privato
Canzone sotto la doccia: l'Internazionale di Franco Fortini
Il viaggio (fatto o da fare): sono appena tornato dall'Eritrea
La città: Bologna
Il portafortuna: una katana giapponese
Dice di sé: "sono così"
Dicono di lui: "è così così"




Carlo Lucarelli e la scrittura
(di Antonella Ottolina e Mariella Radaelli)

DOVE SCRIVE:
"A casa, nel mio studio, su un computer dentro una libreria. E' un po' cupo, però ho tutti i libri a portata di mano"

QUANDO:
"Il pomeriggio perché ho un risveglio lungo e la mia mattina si perde, è cortissima. Di notte mai. La penso come Sandro Veronesi: la notte entra in quello che scrivi. Influenza e falsifica l'umore."

L'ATTIMO PRIMA:
"Vado al piano di sotto, mi chiudo nello studio e reimposto i codici del computer. E' un rito iniziatico. Un po' come scaldare i motori."

L'INCIPIT:
"Iniziare un nuovo romanzo non mi crea difficoltà. Soffro piuttosto di una crisi di rigetto il terzo giorno: rileggo e mi sembra di aver scritto solo sciocchezze. Il quarto giorno passa. E ritorna la voglia di continuare."

IL SOTTOFONDO:
"Ho bisogno di ascoltare musica, a basso volume, per ovviare al rumore del computer. Non lo sopporto."

LA FINE:
"La scrivo e poi rimango male. Mi commuovo e nello stesso tempo sono angosciato. Ho nostalgia. Provo quello che provano i lettori dopo un libro cha hanno amato. Stavo bene lì dentro."















Le dieci regole per scrivere un buon giallo
secondo Carlo Lucarelli

1) Partire da un "mistero misterioso", vale a dire coinvolgente, inquietante. uno di quei misteri che non ti dai pace se non sai come vanno a finire.
2) Centellinare le informazioni al lettore. Non raccontare tutto subito. Mantenere un'atmosfera di sospensione.
3) Portare il lettore verso una prima soluzione del mistero. poi con un colpo di scena aprire la porta a un mistero successivo.
4) Creare un buon personaggio-guida.
5) Creare un buon personaggio che infittisca il mistero, che lo renda più complicato.
6) Situare la storia in un'ambientazione conosciuta e credibile.
7) Mantenere un ritmo di scrittura incalzante.
8) Costruire una macchina narrativa, una storia, per raccontare qualcosa che si ritiene importante (un tempo lo chiamavano il "messaggio").
9) Scrivere con lo stile migliore. Scegliere le parole più belle.
10) Dimenticare tutte queste regole.




















I consigli di lettura di Carlo Lucarelli

a cura di Giulia Mozzato
(Café Letterario)


Ti reputi un buon lettore?
Sì, un po' per dovere, perché ovviamente facendo questo mestiere leggo moltissimi libri, un po' per dovere "ulteriore" perché, sempre per il mestiere che faccio, conosco un sacco di scrittori (quindi devo leggere tutti i libri dei miei amici...) e poi per piacere, perché leggere è un piacere. Leggo da tantissimo tempo, anche perché mia madre è una lettrice accanita e mi passa tutti i libri che "divora", e io lì in mezzo ci vivo.

Il primo libro importante.
Il Barone Rampante di Italo Calvino. L'ho letto a scuola, casualmente, senza sapere che tipo di libro fosse (perché ero un ragazzino e non mi ero ancora fatta un'idea chiara sugli scrittori...) ma ho subito capito che era bellissimo perché parlava di una storia di fuga e di avventura, di un ragazzo che scappa su un albero a 14 anni. E poi l'autore, con una serie di espedienti, fa in modo che il ragazzo non scenda mai più da quell'albero e dagli altri alberi su cui sale. È un romanzo meraviglioso, vicino a Siddharta di Hermann Hesse o a quello che per altri è stato Il giovane Holden di Salinger.

Un titolo da consigliare?
N e potrei citare un milione, perché di solito a questa domanda viene sempre da rispondere con un sacco di titoli. Ho letto un libro che apparentemente non è un libro ma è un fumetto. Però allo stesso tempo è un romanzo. E' un libro di Will Eisner, un romanzo a fumetti bellissimo che parla della storia di un quartiere, talmente affascinante e soprattutto raccontato in modo così letterario e così poco fumettistico che per leggerlo ci devi impiegare un sacco di tempo e potresti leggerlo togliendo tutte le immagini e verrebbe fuori un romanzo di John Fante, oppure potresti mettere in movimento le immagini e avresti un film di Scorsese. Le immagini invece sono ferme, ci sono le parole ed è un racconto-romanzo.

Il libro di uno scrittore-amico?
La raccolta di racconti In tutti i sensi come l'amore di Simona Vinci. Tutte le storie sono molto profonde, alcune molto dure, ma sicuramente bellissime. È un modo forte e delicato allo stesso tempo di entrare dentro una realtà così strana come l'amore.

Tra i libri letti in quest'ultimo anno?
C'è Faccia di sale di Eraldo Baldini che è un altro romanzo straordinario. Una bellissima storia noir e contemporaneamente un viaggio dentro la storia. Poi, altro libro splendido: Q di Luther Blisset. Meraviglioso. Un modo di creare un mondo rifacendosi alla storia, inventare sulla base di ciò che è già esistito e che è reale, ricreando quell'universo tipico di scrittori come Philip K. Dick o dei grandi della fantascienza e della fantasy, nonostante si parli delle guerre di religione alla metà del Cinquecento.

Qual è il libro più divertente che hai letto?
Il primo che mi viene in mente è James Hawes Una mercedes bianca con le pinne. Un bellissimo libro, veramente divertente. Riga dopo riga si susseguono infinite "trovate", una dopo l'altra. Non è un libro comico, è proprio un romanzo divertente! Ti racconta una storia, che è la storia di trentenni in crisi (e fin lì non c'è molto di divertente) che cercano di commettere una rapina in banca e ovviamente tutto gli va in una maniera diversa da quella che immaginano. E nel fare questo l'autore si inventa parola per parola sempre qualcosa di scoppiettante e di umoristico.

E quale rileggeresti ancora molte volte?
Sono due: Natura morta con custodia di Sax di Geoff Dyer e Il silenzio del mare di Vercors.









I suoi film preferiti:
a cura di Catia Donini (in rete)

1) "I duellanti" di Ridley Scott
è l’archetipo della narrazione, non per nulla è tratto dal romanzo di Conrad, che è un grande narratore. E’ fantastico lo scontro tra due persone che dura per tutto il film, sempre loro due, uno davanti all’altro; e poi Ridley Scott l’ha girato benissimo, gli attori sono eccezionali, io amo quel periodo storico… insomma, aveva tutto per piacermi!

2) "Apocalypse Now": è un vero capolavoro, e non a caso c’è ancora Conrad di mezzo (è ispirato al racconto "Cuore di tenebra"). La figura di Marlon Brando, il capitano Kurtz, è epica, poi il viaggio, le scene bellissime, come quella del ponte incendiato, l’uso della musica… lo guardo sempre con emozione.

3) "Il silenzio del mare", di Jean-Pierre Melville, un bianco e nero degli anni Quaranta (credo, almeno io l’ho visto in bianco e nero); è il grado zero della narrazione; la linea piatta, non in senso banale, ma in senso letterale, che è come si deve raccontare una storia. Una storia particolare di grandi emozioni e grande intensità.

Questi sono film che vedo ancora, me li riguardo, anche in cassetta.
Poi, una faccia che mi fa venire sempre il brivido alla schiena proprio nel senso "nostro", del mistero, è Anthony Perkins, nell’ultima scena di "Psycho"; quella è una grande faccia; anzi, quando Perkins fa il sorriso finale, e in sovrimpressione si vede il teschio, il volto della madre, ecco, per me quella è LA faccia.
Mentre direi che non c’è, in assoluto, un attore o un’attrice di cui non perdo un film. Mi piace molto De Niro, ma non ho visto tutti i suoi film. Vado a vedere Cameron Diaz, perché mi piace lei, anche se alcuni film che ha fatto sono davvero delle sciocchezze…
Una volta l’attore che andavo in ogni caso a vedere era Harrison Ford… oggi non più, non so bene perché, evidentemente alla fine ho capito che quel che m’interessa è il personaggio, non l’attore.
Però, a ripensarci, forse c’è un attore che mi fa guardare un film solo per la sua presenza… magari per cinque minuti, ma lo guardo. E’ Harvey Keitel. Anche se il film fosse "Cruyff il profeta del gol" (uno dei film più noiosi che ho visto, a me il calcio non interessa per niente), e mi dicessero "beh, il portiere lo fa Keitel", guarderei il film per almeno tre secondi.

a cura di Catia Donini








le dediche nei suoi libri


"Nikita" (A Luigi Bernardi, compagno di sogni, che ha dato al nuovo poliziesco italiano lunghe ali di pipistrello, con cui volare lontano)
"Vorrei essere il Pilota di uno Zero" (
a Stefania)
"Guernica" (
A Simona (che ogni cosa continui a girarle attorno con senso))
"Febbre Gialla" (
ad Angelica (quella vera))
"Autosole" (
a Gaetano che conosce le autostrade)
"Via delle Oche" (
a Tecla)
"Un Giorno dopo l'Altro" (
A mia madre, molto diversa da quella che c'è qui)
"Misteri d'Italia - i casi di Blu Notte" (Alla piccola lettrice, che qualche mese fa, al Festival della Letteratura di Mantova, mi disse una cosa bellissima facendomi firmare Febbre Gialla in un ristorante del centro. Non so se questo libro ti piaccia, ma non importa, perché anche quelli che scriverò dopo saranno comunque tutti per te. Puoi scegliere quello che vuoi.)
"Serial Killer - Storie di ossessione omicida" (
A Lorenzo, Alessandro e Silio, tra delitti e misteri, più che amici, fratelli C.L.)
"Il Lato Sinistro del Cuore" (
A Pasqua (sembra un appuntamento e invece è una dedica))
"L'Ottava Vibrazione" (A Lisa, che sia sempre felice, e a Sara e Francesco, che siano sempre così)
"Il tempo delle iene" (A Ogbà (quello vero), che sposò Manna ed ebbe Lettebrahàn, che sposò Woldeyohannes ed ebbe Yodit, che ha sposato me e abbiamo avuto le bimbe.)
"Intrigo italiano
" (A Tecla, amica, e perché anch'io, come moltissimi, senza di lei non sarei stato qui, così.)
"Peccato mortale" (Severino, amico mio)



"Io scuro, prevedo l'arcobaleno"
di Carlo Lucarelli
(Letture - anno 54 giugno luglio 1999)

Nella mia vita di scrittore il giallo, inteso come tutto, come tematica e come struttura narrativa, ha contato e conta moltissimo. Direi che per me "scrivere in giallo" è sinonimo di "scrivere". Intanto trovo in quella tradizione narrativa, quella bella tradizione ormai più che secolare che va dall'Edgar Allan Poe ai giorni nostri, le suggestioni che più mi colpiscono. Ci sono narratori della "metà chiara" e narratori della "metà oscura": io e quelli come me siamo, naturalmente, tra questi ultimi. Ritengo che temi come la Vita e la Morte, la Verità, la Giustizia, il Destino, siano propri del romanzo giallo, come mettono in risalto soprattutto quei sinonimi coniati da Sciascia e Dürreranatt per il genere: "romanzo problematico" e "romanzo dell'inquietudine".
Oltre a questo, trovo efficacissima e meravigliosa la struttura narrativa del giallo. Il mistero come principio motore della storia. La suspense e il colpo di scena come ossatura su cui articolare la narrazione. La tradizione del genere che ha sviluppato una sperimentazione continua su espedienti narrativi sempre più efficaci. E anche l'esempio stilistico di grandi scrittori come Simenon, Scerbanenco o tanti altri.
Direi, dunque, che il giallo conta e conta moltissimo. Per quanto mi riguarda, la domanda più appropriata non sarebbe perché scrivere gialli, ma perché no.
Il giallo italiano ha avuto stagioni alterne. Come tutti i generi letterari, anche il giallo subisce una sua evoluzione che accompagna momenti di felicità a momenti di crisi. Anche il giallo italiano.
Questo, però, è un momento felice. Assieme a punti di riferimento che appartengono alla tradizione del giallo classico come Renato Olivieri, o che si impegnano in un continuo rinnovamento come Loriano Macchiavelli, ci sono soprattutto moltissimi "giovani" autori, anche se non giovani in senso anagrafico. Autori che intendono la letteratura di genere non come una prigione dalla struttura fissa ma un campo in cui sperimentare. Che trovano nel giallo il modo di dar voce a un rinnovato interesse nei confronti della trama e della realtà. Che hanno la concezione di una letteratura che se da una parte non scende a compromessi per quanto riguarda la qualità stilistica, dall'altra non rinuncia a una vocazione avventurosa e popolare. La lista è lunga e testimonia proprio della attuale vitalità del giallo. Solo per citare qualcuno: Andrea G. Pinketts, Marcello Fois, Giampiero Rigosi, Eraldo Baldini, Peppe Ferrandino, Gianfranco Nerozzi e il grande e sempre giovanissimo Andrea Camilleri.
Naturalmente un rischio esiste, ed è quello della moda. Dopo anni di limbo e considerazione da ghetto, critici, giornalisti ed editori si accorgono del successo commerciale di un genere erroneamente ritenuto "facile", stimolando una "produzione" entusiasta quanto esagerata. Non ho usato casualmente il termine "produzione", con tutto quello che di freddo e commerciale comporta. Il giallo non è un genere facile. Occorre tecnica, sperimentazione, conoscenza e una sicura sensibilità ai temi e alle suggestioni del genere. Non ci si improvvisa giallisti come non ci si improvvisa narratori intimisti o minimalisti o d'avanguardia.
Io credo che il futuro del giallo, come di tutti i generi letterari, sia quello delle società umane, sempre più multietniche e multiculturali.
Credo sia la fusione, la contaminazione, l'arricchimento. Utilizzare gli espedienti tecnici di una sperimentazione narrativa per raccontare certe suggestioni nel modo migliore. Una sorta di camera oscura che lo scrittore può attraversare senza uscirne necessariamente coperto di etichette. Già adesso si leggono romanzi gialli di sicuri e orgogliosi giallisti che potrebbero essere meglio definiti romanzi storici o sentimentali, e si leggono romanzi intimisti o generazionali che potrebbero stare nello scaffale "giallo" di qualunque libreria. Basta pensare alle suggestioni noír di un'autrice che nessuno potrebbe definire di genere come Simona Vinci, o a un romanzo storico come il recentissimo Q di Luther Blisset. Credo che il futuro del giallo, come quello di tutti i generi, sia di vedere il proprio colore incluso in una sorta di bellissimo arcobaleno.









"'68 "
di Carlo Lucarelli
(da "Il '68 di chi non c'era (ancora) a cura di Raul Montanari - Rizzoli 1998)

Nel 1968 io ero un militare.
Non nel senso tecnico del termine: avevo otto anni nel '68 e l'unico esercito regolare che avesse un bambino come caporale era il 7° Cavalleria di Rin Tin Tin. Nel senso che giocavo sempre e soltanto a guerra e a soldatini. Quelli piccoli, microscopici dell'Aírfix, perfette riproduzioni di tedeschi dell'Afrika Korps, scozzesi di Waterloo e sudistí della guerra di Secessione. Ne avevo quattromila.
Il mio mondo, la mia visione del mondo, in quell'anno era quella semplice, diretta, concreta e manichea di un militare. Un mondo fatto di cose chiare, divise nettamente come da una trincea: o così, o così. E basta. li mio modello di riferimento era il John Wayne di "Soldatí a cavallo" di John Ford. Il mio testo di base, i fumetti di " SuperEroica', dove americani e inglesi, che per me erano la stessa cosa, facevano fuori tedeschi che dicevano "Ach Himmel!" o "Der Teufel!" e giapponesi che quando venivano colpiti gridavano 'AYEAARRGH'. Come esempio vivente avevo mio nonno, che da giovane era stato sottosegretario del Fascio di Figline Valdamo. Non era un gran gerarca, mio nonno, a Fígline erano in sei o sette, e neppure un fascista convinto. Era un uomo tutto d'un pezzo che non scendeva mai a compromessi. L'unico iscritto al PNF che il 25 luglio 1943, quando venne arrestato Mussolini e tutti i fascisti sparirono a nascondersi, andò alla sede locale del Fascio a restituire la tessera. Durante la guerra, quando i partigiani fermarono un camion e requisirono un carico di scarpe di cui lui era uno dei responsabili, mio nonno costrinse un operaio che faceva parte della Resistenza a dirgli dove stavano nascosti in montagna i partigiani che avevano compiuto l'operazione. Non per denunciarli, no: per andare a farsi dare la ricevuta. E ci andò, in montagna, e quando tornò giù lui aveva la sua ricevuta e mia nonna era svenuta.
Linee nette, campi ben definiti in cui militare. Anche a scuola era lo stesso. Facevo la quarta elementare in una scuola di Parma ma non era una quarta come tutte le altre. Il mio maestro faceva paracadutismo e un giorno atterrò male e si ruppe una gamba. Venne sostituito per quasi tutto l'anno da una supplente che evidentemente non era un granché come insegnante perché appena suonava l'intervallo andava a chiacchierare nel gabbiotto della bidella e ci restava tutto il resto della mattina. Quando tornava ci raccontava strane storie che passava come pettegolezzi cittadini. ("C'è una signora di Parma che va a trovare una signora ricca. La signora ricca gli mostra anelli, collane e braccialetti e la signora di Parma gli fa vedere i figli e dice: questi sono i miei gioielli!" Solo più avanti negli anni scoprii che era la leggenda romana di Cornelia e dei fratelli Gracchi. Non so, forse il pettegolezzo della bidella faceva parte di un processo subliminale di acculturazione della mia maestra.) Ma era durante l'intervallo che succedevano le cose. Arrivava Gottra, un bambino magro che io ricordo con le orecchie a punta e ti diceva di scegliere un numero. Uno o due? Due. Monarchia. Oppure Cavalleria. Oppure Partito Comunista. Qualunque cosa avessimo sentito dire a casa dal babbo o da un telegiornale o dalla maestra, qualunque contrapposizione si potesse anche soltanto immaginare, con quel numero avevi appena scelto lo schieramento m cui militare fino alla morte, cioè il suono della campanella. Appena Gottra aveva fatto il suo sporco lavoro di reclutatore, si alzavano Giubilini e Rubiolati, chiamavano i numeri ed erano botte.
E' in questo contesto caratteriale che arriva il '68, inteso non come anno ma come tutto il resto.
Intanto c'è il Vietnam, che arriva attraverso le immagini in bianco e nero sgranato del telegiornale. Mia mamma, il mio babbo, i miei nonni che guardano lo schermo con aria seria e io mi chiedo che cosa ci sia di strano. Dico, è la guerra, è normale che la gente muoia, è fatta per questo. Dico, quelli sono americani, è normale che facciano fuori dei giapponesi, no? C'era qualcosa che non tornava.
Poi c'erano i capelloni. Prima ancora di sapere cosa fossero mio nonno mi prese per un orecchio e mi disse: "Te, e se tu mi diventi un 'apellone (era toscano, mio nonno, di Prato), bada 'he ti tronco! ". E io mi chiedevo come avrei potuto farlo dato che ogni mese mandavano me e mio fratello da Franco il barbiere, che ci faceva la sfumatura a macchinetta così alta che quando uscivamo sentivamo il fresco sulla nuca anche d'estate. Io me li immaginavo come gli indiani i capelloni, ma una mattina che mia madre era venuta a prenderci in macchina fuori da scuola, ci trovammo bloccati da un corteo. Inscatolati nella Cinquecento, eravamo circondati da studenti che non ce li avevano poi così lunghi i capelli, anzi. A guardarli da dietro, mentre si allontanavano e ci lasciavano libera la strada, mi sa che ce n'era qualcuno che andava anche lui da Franco. Anche qui, c'era qualcosa che non tornava.
Ma chi mi confuse definitivamente le idee fu proprio mio nonno. A forza di sentir parlare di politica, avevo cercato anch'io di costruirmi una mia personale geografia ideologica. Una geografia che procedeva per definizioni nette, come le avrebbe avute John Wayne. Definizioni semantiche. Se i Comunisti si chiamavano Compagni, i Socialisti si chiameranno Soci (mi sapeva un po' di commerciale, ma non avevano avuto un'intuizione tanto infelice). E i Democristiani? Cristi? No, blasfemo. Poveri Cristi? No, riduttivo. Lo chiesi a mio nonno che mi disse cose irripetibili (era un'opposizione di destra, la sua, ma allora non lo sapevo). Ma come, pensai. Sono il governo, sono la polizia, sono le giacche blu. Con chi starebbe John Wayne? John Ford? Rin Tin Tín? Non tornava neanche quello.
Così accadde che proprio in un momento in cui le ideologie si rinsaldavano, gli schieramenti si compattavano, il giusto e l'ingiusto si profilavano netti, per me si confondeva tutto. Col '68, mentre molti trovavano un'impostazione ideologica, una verità, io la perdevo.
E per fortuna.
Qualche tempo dopo, al mare, quando andai in edicola a comprare i giornalini con mio fratello, non presi più "SuperEroica". Presi "Corto Maltese", Una ballata del mare salato.










"Raccontare il passato degli altri"
di Carlo Lucarelli

Ricordo ancora la sensazione che provai la prima volta che mia madre e mio nonno si misero a raccontarmi i fatti della guerra, a tavolo, dopo cena. Me le sentivo bruciare in testa tutte quelle storie, gonfiarsi dentro e premere sotto la pelle per uscire fuori, come i mostri di un film di Cronemberg. E poi mi ricordo di quando ero piccolo e con, le mani affondate nelle tasche dei calzoncini raccontavo tutto preso di quella volta che avevo infilato la testa tra le sbarre del terrazzo e non riuscivo più a venire fuori... Non era successo a me, ma a mio fratello qualche anno prima, quando eravamo piccolissimi tutti e due. Io lo avevo rivissuto attraverso i racconti tanto da farne un ricordo mio. Chi scrive di narrativa lo sa, quanto e meglio di me, che a volte si incontrano storie che ti chiedono di essere raccontate. Te lo impongono, ti sfidano quasi e quasi ti scelgono e, non ne puoi fare a meno, tanto che più che di ispirazione in certi casi sarebbe meglio parlare di possessione. Ecco, a volte sono storie o persone, ma a volte sono periodi storici, anni, epoche. Sono Bartali e Coppi seduti su una sedia di vimini davanti ad una tovaglia a scacchi, con i calzoni troppo corti che gli scoprono i calzini infilati nei sandali, sono Marisa Allasio e Renato Salvadori che corrono in vespa sul bordo del canneto, sono Togliatti, Pajetta, Longo e Amendola che escono a braccetto da Botteghe Oscure, attraversano il ciotolato proprio sulle rotaie del tram e Pajetta, il collo magro che esce dal colletto della camicia bianca aperta sulla giacca, alza la testa, mi fissa e dice "guardaci, siamo il 1948, siamo gli anni 50, prova a raccontarci se ci riesci".
Quando si racconta il passato si raccontano i ricordi e se il passato non è il nostro, se non l'abbiamo vissuto n prima persona, si raccontano i ricordi degli altri. E proprio qui, credo, il problema: raccontare i ricordi. C'è una frase che ricorre immancabilmente quando si ascolta un testimone dell'epoca, una frase pesante come una pietra tombole, sufficiente a seppellire anche il passato più recente dentro quelle tenebre profonde in cui frusciano misteriosi gli Ittiti, gli Etruschi e gli abitanti di Atlantide: "Se non l'hai vissuto non lo puoi capire". Questo non è vero. Se tu me lo racconti, se io chiudo gli occhi e cerco di sentire anche quello che le parole non dicono ancora, posso immaginarlo e se lo posso immaginare allora lo posso anche capire.
Immaginare, nella pratica tecnica di chi racconta storie ambientate nel passato, ha un sinonimo meno suggestivo: documentarsi. Che, naturalmente, significa solo in parte leggere libri di storia. Qui vale il discorso che faceva Manzoni a proposito del romanzo storico: i grandi eventi forniscono la sovrastuttura, il castello narrativo che poi va riempito di vita, vita particolare, concreta e quotidiana. Il 25 luglio 1943, dopo la sfiducia ricevuta dal Gran Consiglio del fascismo, Mussolini va a dimettersi dal Re Vittorio Emanuele II che lo fa arrestare... e questa è storia. Ma prima di andare a Villa Savoia, Mussolini sarà passato da casa, si sarà cambiato i calzoni, avrà bevuto una tazza di brodo con donna Rachele, magari c'era la radio accesa in sottof6ndo e il poliziotto di guardia al portone batteva il ritmo di una canzonetta con il piede mentre pensava che ormai era ora di rifare le scarpe ai ragazzi e che se rivendeva qualcosa della tessera, a borsa nera, forse ce la faceva... e questa è vita. E allora, dove si legge la vita? la vita non si legge, si ascolta. la vita è quel coro sommesso di voci che fa la colonna sonora di un periodo. La si ascolta, quando si può, nei ricordi dei protagonisti, che restano naturalmente la fonte primaria. Ma la si ascolta; anche e parecchio, nei giornali, che per una volta tanto sono una vera e propria miniera di informazioni. Nei giornali ci sono le notizie da prima pagina ma anche le pubblicità, i titoli dei film, i programmi della radio e il prezzo delle cose. Su l'Unità del 1945 c'è Togliatti che protesta in parlamento ma c'è, anche la squadra mobile di Parma che finisce dentro perché vende a borsa nera le gomme delle auto requisite. E nel Carlino del '36 c'è Mussolini che conquista l'Etiopia ma anche i consigli di moda per il mare e i film che partecipano alla Mostra dei Cinema di Venezia. La vita si ascolta, anche e parecchio, nelle canzoni, sui dischi, alla radio o nei concerti: sono "Maramao Perché Sei Morto" e "Il pinguino Innamorato" che raccontano gli anni '30, come "Contessa" e "In Morte di M.F." raccontano qui anni '70 e "Va Pensiero" l'unità d'Italia. La vita la si ascolta nel tempo libero, nei giochi dei bambini, nei libri che si leggono, dove si va in vacanza, a tavola, a letto e in gabinetto. Piccole cose che servono a definire un epoca, tanto che una delle migliori contestualizzazioni di un periodo - uno di quelli di cui mi occupo io, ad esempio - potrebbe proprio essere questa: un uomo a tavola che legge il giornale davanti alla radio accesa. 1942: Nella Colombo sta cantando "Mamma Mi Ci Vuole Un Fidanzato", lui è in poltrona che legge sul Messaggero i resoconti della battaglia di El Alamein e lei lo chiama a tavola lamentandosi che, per la guerra, la polpa di vitello ha passato le 9 lire al chilo, quando la si trova.
Restiamo nella metafora: il passato è un concetto di voci sommesse che chiedono di essere ascoltate, Sonorità, voci e note che, proprio come nella musica, hanno un contro- conto essenziale di cui tenere conto: il silenzio. Il silenzio è fondamentale nella ricostruzione di un'epoca dove conoscere tutto quello che serve, regola base della documentazione, si accoppia con tacere al momento giusto di quello che non si conosce. Io so che Mussolini, prima di andare a farsi arrestare dal Re, si fece servire una tazza di brodo dalla moglie. Ma di cosa fosse fatto il cucchiaio con cui lo ha mescolato e come avesse le gambe il tavolo su cui mangiava, sono particolari che ignoro. Nella mia ricostruzione il brodo sarà una nota definita e accordata, il tavolo e il cucchiaio saranno un silenzio, saranno un tavolo e un cucchiaio, negli anni '40 come negli anni '90. E ancora: note e silenzi vanno accordati e non semplicemente suonati, riprodotti. la ricostruzione dei passato si trova sempre di fronte ad un immaginario ormai codificato, che può essere educato, modificato o semplicemente assecondato, ma di cui bisogna tenere conto. E' il vecchio discorso del vero che in letteratura può sembrare più fantastico del verosimile. La classica imposizione fascista dell'uso del 'voi', per esempio, è datata 1939 per cui se usassi il 'lei' in un racconto ambientato nel 1935, scriverei una cosa vera ma che al lettore medio suonerebbe falsa. Dovrei renderla verosimile spiegandolo, o forzandola, o semplicemente tacendola.
Ecco, allora, che si potrebbe dire che immaginare il passato non significa soltanto rievocarlo, scoprirlo e riprodurlo quanto elaborarlo. Un po' come succedeva a me con i ricordi di mio fratello, che diventavano anche i miei. E' così che raccontare il passato degli altri diventa anche raccontare il mio passato e, soprattutto, il mio presente. Sarà psicosomatico, ma quando mi tocco dietro le orecchie ancora adesso mi sembra di sentire le cicatrici di quel giorno, tra le sbarre del terrazzo...










"La suspense"
di Carlo Lucarelli
(da "Come scrivere" a cura di Rosaria Guacci e Bruna Miorelli - Zelig 1999)

Una volta qualcuno chiese a Stephen King se credeva fosse possibile fare paura in tre righe, lui che scriveva romanzi di centinaia di pagine. Stephen King citò un esempio, tratto da un autore di cui non ricordo il nome, e lo citò più o meno così:
- è appena avvenuta la catastrofe nucleare, prima riga;
- l'ultimo uomo rimasto sulla terra è chiuso in un bunker antiatomico, seconda riga;
pausa per prendere il fiato;
- qualcuno bussa alla porta, terza riga.
Quella pausa fatta apposta prima del grande mistero inquietante e irrisolto della terza riga è la suspense.
Ma cos'è la suspense? Piano, andiamo con canna. Prima un altro esempio. Henry James, in Giro di vite. Un gruppo di persone davanti ai fuoco, in una casa in campagna, in una sera d'inverno, che si raccontano storie di fantasmi. Uno di questi conosce la storia di fantasmi più spaventosa che sia mai stata raccontata, una storia che coinvolge due bambini. Ma non la racconta. Ha bisogno di cose, di incoraggiamento, di un documento che si trova a casa sua, ancora di insistenza da parte di tutti, prima di mettersi finalmente a parlare.
Quella cosa che fa in modo che io lettore resti incollato alle pagine del libro anche dopo quel mistero così imperdonabile (quella è la storia di fantasmi più spaventosa che esista, non una storia e basta, non posso non farmela raccontare; l'uomo nel bunker è l'ultimo uomo rimasto sulla terra, sono io quell'uomo, e devo sapere chi bussa alla mia porta) e voli veloce su pagina due, tre, quattro, fino a saltare sulla sedia al primo colpo di scena, quella è la suspense. E cos'è?
Cerchiamo di darne una definizione tecnica. Una definizione nata dalla pratica e che si avvale di termini empirici, non propriamente da libri di narratologia. Ma efficaci.
Partiamo da un concetto fondamentale. La suspense non è soltanto un espediente narrativo, un effetto, un trucco da scrittore. La suspense è uno stato d'animo del lettore. Come tale va rispettato, curato con devozione e mai abusato. Non è solo una cosa che mi serve per far leggere un paio di pagine in più, è una sensazione procurata, uno stato di sospensione in cui io ho messo i1 mio lettore, quasi a gareggiare sopra il libro. E' una cosa che io sto facendo a lui, al mio lettore, una cosa importante, che devo fare con cura e, appunto, senza abusarne, perché è una cosa sua. Questo comporta l'inserimento di altri tre concetti, che dopo spiegheremo, e cioè che la nostra suspense per essere vera ed efficace deve essere preparata, non banale e a termine.
Prima però vediamo la natura della suspense, di cosa materialmente è fatta.
Un altro esempio. Classico. Sono solo in casa. Sono sicuro di essere solo in casa. E' notte e me ne sto seduto in poltrona a guardare un film. Un film dell'orrore, tanto per essere in tema. Improvvisamente, sono solo in casa, ricordate, improvvisamente in fondo al corridoio buio alla mia sinistra si accende una lama di luce sotto alla porta chiusa del mio studio. Paura. Chi è? Chi c'è in casa mia quando dovrei essere assolutamente solo? Nella realtà, appena si accende la luce io sarei già schizzato fuori di casa o mi sarei attaccato al telefono a chiamare il 113, ma nei romanzi e nei film di genere è diverso. Nei romanzi si va a guardare. Magari con un attizzatoio in mano, ma si va a guardare. Vado a guardare, allora, mi avvicino cauto alla porta, metto la mano sulla maniglia, alzo il braccio armato dell'attizzatoio, abbasso lentamente la maniglia... e alle mie spalle suona il telefono. Suspense.
Da questo punto di vista si potrebbe pensare che la suspense sia un rallentamento del ritmo narrativo. La mia azione proseguirebbe a una certa velocità narrativa e invece interviene qualcosa a rallentare, a rimandare. La vita prosegue con il suo ritmo, inspirazione-espirazione, inspirazione-espirazione, e all'improvvíso, appena ho preso il fiato, tac! qualcuno mi chiude la bocca.
Però c'è un altro esempio, che dice il contrario. Un bellissimo racconto di Stefano Massaron, che si chiama "Conto alla rovescia" ed è contenuto in una vecchia antologia della Granata Press dal titolo Lezioni notturne. In "Conto alla rovescia", Stefano Massaron mette in scena due giovani fidanzati e ce li presenta in maniera così deliziosamente amabile che concordiamo con la voce del narratore: vorremmo essere come loro. Ma subito dopo il narratore ci avverte: non sanno che fra dieci minuti saranno morti. Ecco il mistero inquietante e imperdonabile: perché? Sono così carini e moriranno, perché? Ed ecco la suspense. Ogni azione dei due fidanzati, i passi fuori dalla metropolitana, i baci, i litigi e le riconciliazioni, sono accompagnati da un conto alla rovescia, nove minuti, sette minuti, tre secondi, due secondi, uno, che scandisce il ritmo, ed è un ritmo veloce. Come se qualcuno avesse caricato un metronomo che anche graficamente (i paragrafi e le frasi si accorciano) va più veloce.
Allora forse si può correggere la definizione formale di suspense in questo modo: la suspense è una variazione del ritmo narrativo.
E qui bisogna recuperare il primo dei tre concetti lasciati indietro poco fa. La suspense va preparata. E' chiaro che una variazione del ritmo narrativo crea inquieta sospensione quando è inserita in un racconto di tensione. Altrimenti sarebbe soltanto una semplice variazione statistica determinata da criteri estetici d'altro genere. Io sono nel mio salotto, in casa mia, a vedere un film da solo quando si accende la luce. Se fosse giorno, avessi alla mia destra una splendida vetrata dalla quale si vede una spiaggia affollata, il rallentamento del ritmo servirebbe probabilmente a farmi notare i riflessi del sole sulle onde e non farebbe nessuna paura.
Possiamo anche individuare due tipi di suspense, due grandi famiglie, all'interno delle quali preparare questa variazione del ritmo narrativo.
Una è questa: mi avvicino alla porta chiusa del mio studio e voi sapete, lo sapete perché lo scrittore ve lo ha detto o la telecamera ha inquadrato l'interno dello studio, sapete che dietro la porta c'è un assassino con un coltello. Io so che sta per succedere qualcosa che non vorrei accadesse. La suspense qui è data dalla partecipazione del lettore al destino del personaggio, se, naturalmente, sono riuscito a costruire il personaggio nella maniera giusta e ho fatto in modo che il lettore sia interessato a lui.
L'altra è questa: sto camminando per casa mia, attraverso un lungo corridoio e sto per aprire una porta e sapete, voi lettori, che sta per succedermi qualche cosa di tremendo. Quella lama di luce che si è accesa sotto la mia porta e che io non ho visto ma voi sì. Nel cinema sarebbe un effetto sonoro, come la musica che cresce. Sta per succedere qualcosa che non so ma che mi fa paura. Il sentimento dominante, qui, è la curiosità e il timore di quello che può accadere in quel momento. Anche qui il concetto di preparazione è fondamentale. Il mio personaggio dovrà essere costruito in modo tale da trovarsi in una situazione che fa paura. Come il protagonista di Profondo rosso di Dario Argento, ad esempio, che si trova in uno scantinato a esaminare carte risolutive di una serie di brutali omicidi, con la sua assistente appena accoltellata dietro una colonna (ma lui non lo sa). Là fuori, nel buio, c'è l'assassino che lo aspetta e lui dovrà affrontarlo con le sue deboli forze, perché è disarmato, è gracile e non violento e di mestiere fa addirittura il pianista. Una situazione in cui ci troveremmo anche noi di fronte a un maniaco omicida armato di mannaia e che, ovviamente, ci fa paura. Sostituiamo al gentile pianista l'ispettore Callaghan con la sua 44 magnum o Rambo con la mitragliatrice a tracolla e per quanto si alzi la musica o si rallenti il ritmo la suspense non verrà mai.
E' venuto il momento di concludere con gli altri due concetti: non banale e a termine.
Non banale. Chi scrive di genere sa di avere a che fare con un lettore esperto, un lettore che è pratico tanto quanto lo scrittore dei meccanismi, degli espedienti e dei ritmi della narrativa di genere. Un esempio: nei racconti o nei film gialli di una volta, se io chiamo la polizia per dire al detective che ho scoperto qualcosa di importante, il detective mi chiede "cosa" e io dico "non al telefono, vediamoci all'hangar 5 tra mezz'ora", sappiamo tutti che quando il detective arriverà all'hangar 5 io sarò morto. L'effetto di rallentamento della telefonata è un effetto di suspense ma non è efficace perché è banale, già visto, non originale. A meno che, con piena consapevolezza, l'autore non decida di giocare con questi meccanismi assieme al lettore, con un intento quasi parodistico. Per esempio: il poliziotto sta per entrare in una casa in cui sa che c'è un assassino. E' la casa di una vecchia signora e appena il poliziotto tocca la porta e si accorge che è socchiusa noi sappiamo con assoluta certezza che la vecchia signora è morta e l'assassino è dentro. Lo sappiamo proprio perché è un effetto di suspense banale, già visto e ormai consolidato come un segno narrativo convenzionale. Il poliziotto entra in un corridoio dove ci sono tre porte e tutte e tre sono socchiuse. A questo punto inizia il gioco con i meccanismi, consapevole della convenzionalità del meccanismo e senza nessuna falsa illusione sulla sua originalità.
A termine. Proprio perché è uno stato d'animo del lettore, uno stato di galleggiamento in cui io l'ho messo, questo stato non può durare in eterno. A un certo punto la mia suspense deve finire, prima che sia noiosa e troppo lunga. Ma quando deve finire la suspense? Quante note può avere la musica inquietante che accompagna il mio avvicinamento alla porta chiusa nel corridoio?
Non è facile stabilire un termine. E' una questione di ritmo narrativo ed è una cosa che lo scrittore dovrebbe sentire istintivamente. Un metodo meno razionale per capire quando si è troppo lunghi è quello di smettere di utilizzare un effetto quando ci si sta annoiando a scriverlo. Ma a volte può intervenire il compiacimento tipico dello scrittore nel giocare con le parole e non ci si accorge che il lettore, questo compiacimento, non lo sta condividendo affatto. C'è un metodo più razionale ed è quello di smettere quando un effetto di suspense si sta riproducendo identico a se stesso. Esempio: ho la mano sulla maniglia del mio studio. Dietro la porta l'assassino ha alzato il coltello. Suona il telefono. Suspense. E' mia madre. Contrariamente a quello che farei io nella vita, e cioè urlare "mamma, mandami la polizia, c'è qualcuno in casa", il personaggio di un romanzo o di un film giallo taglia corto perché vuole andare a vedere quello che c'è dietro alla porta dello studio. Così faccio. Chiudo e mi riavvicino alla porta. Mano sulla maniglia. Il telefono squilla ancora. Suspense. Il lettore non si aspettava un secondo squillo. Rispondo ed è nuovamente mia madre. Riattacco, molto seccato, e torno alla porta che mi aspetta. Mano sulla maniglia. Suona ancora il telefono. Se fosse tutto qui, un semplice terzo squillo di telefono, la suspense sarebbe troppo lunga. Ma se io rispondo, arrabbiato, e dico "mamma ti ho già detto ... " e una voce sottile sussurra nella cornetta "tra poco ti ucciderò", l'effetto funziona. Non soltanto un altro squillo di telefono che riproduce se stesso; è un meccanismo diverso. Chiudo, molto allarmato, mi Ravvicino alla porta, metto la mano sulla maniglia e il telefono squilla ancora. Ecco, a questo punto, non sapendo cos'altro inventare per variare il senso dello squillo, la quarta telefonata sarebbe di troppo.
Un'ultima cosa. Quello della suspense, proprio per motivi inerenti alla sua stessa natura, è un meccanismo studiato e utilizzato dal romanzo di genere e soprattutto dal cosiddetto giallo. Questo non significa che un momento di sospensione, anche inquietante, non possa essere utilizzato in qualunque altro genere di narrativa. La scena di suspense più forte che io abbia mai visto appartiene a un film sentimentale a sfondo storico come il Dottor Zivago. Lui la vede dopo tanto tempo, di spalle, mentre attraversa la strada. La donna della sua vita, tanti anni di separazione, dolore, vicende incredibili... allunga la mano e cerca di raggiungerla tra la folla ma arriva una crisi cardiaca e lo blocca, così vicino e così lontano. Suspense.
Ecco, più o meno, questo è tutto quello che so sull'argomento.












"Il cibo"

"Molti sopravvalutano la cioccolata. Credo francamente che la cioccolata faccia star male e basta, non funziona. Per la mancanza d'affetto c'è il maiale. Una bella braciola tira su, anche una salsiccia dà euforia." (da "Io e il cibo" Gambero Rosso 2001)

TECLA DOZIO: Come ti piacerebbe che fosse il tuo cenone di San Silvestro?
CARLO LUCARELLI: Saltiamo l'antipasto perchè veniamo subito al sodo.
A parte due cappelletti in brodo che "per devozione" come diceva mia nonna ci vogliono sempre, il resto è: bomba di riso con lo stufato di cappone, vitellone al peperone, capitone all'agrodolce di lampone, gamberone all'amarone e, per finire, ciambellone. Con mascarpone. (da "Capodanno Nero" Todaro Editore 2000)


La casa, la vita
" NEL RESPIRO DELLE COSE"
Sussurri e rumori percorrono l'antica dimora dello scrittore vicino Bologna

Ci sono casa che respirano. Che producono rumori che non sono i soliti, i vicini, le tubature, il riscaldamento, sono i rumori di qualcosa che c'è, che si muove, che respira, qualcosa che esiste e che vive.
La mia casa respira. Sussurra, quando le finestre sono aperte e l'aria scorre tra le tende. Mormora, quando i travicelli sotto il pavimento vibrano se qualcuno cammina silenzioso in una stanza lontana. Geme la notte, quando scricchiolano le travi, i mobili e gli stipiti delle porte, e lo fa come quando ci si rivolta nel letto, prima di addormentarsi. E respira, anche quando sta in silenzio nel buio delle luci spente, nel buio anche di giorno, d'estate, perché un tiglio enorme copre metà della facciata e oscura quasi tutte le finestre. Il suo è un respiro lento, che prima o poi finisce per adattare al suo ritmo tutte le cose. Dopo un po' i fax si rompono, i cellulari non prendono, i televisori perdono la sintonia, i campanelli non si sentono più. Sta al centro di un paese dell'industrializzata campagna emiliana, affacciata su una strada di traffico pesante, ma le strade e il paese sembrano lontani, oltre il giardino, chiusi fuori dalle mura di quello che resta del Castello di Mordano, distrutto da Carlo V nel 1494, occupato dai tedeschi durante la guerra, abitato dai miei fin dal '700, e mi immagino che tutti abbiano dovuto adattarsi a quel ritmo e a quel respiro. Mi immagino tra Oberführer che non si sveglia alla mattina perché non ha sentito suonare la tromba, mi immagino lo zio Pierino che fa il giro della casa a spegnere tutte le candele prima di andare a letto, ma piano, fermandosi a guardare i libri nella biblioteca, mi immagino i soldati di Carlo V che si fermano un momento sotto il tiglio, prima di dare fuoco a tutto, quasi tutto, tranne casa mia.
Ogni tanto c'è qualcuno che cerca di cambiare le cose. Lo ha fatto la mia bisnonna che agli inizi del secolo aprì un portone nelle mura in una notte approfittando del permesso del sindaco che aveva bevuto troppo a cena. Lo hanno fatto i miei negli anni '40 aprendo uno scalone nella sventratura di una bomba. E lo abbiamo fatto mio padre e io, costruendo una libreria lungo tre stanze. Ma è inutile, la casa assorbe i cambiamenti, li modifica a sua volta, li adatta e li perde nella memoria, come se ci fossero sempre stati. Lascia solo un indizio segreto, un piccolo mistero, per chi viene dopo, una nicchia murata in cantina, una volta cieca in soffitta, una stanza segreta dietro l'anta girevole della libreria, bauli pieni, armadi chiusi, cassettoni dimenticati in solaio, misteri.
Se ci siano i fantasmi non lo so, non me lo sono mai chiesto. Se siano loro a far scricchiolare il letto di mio fratello nella stanza accanto alla mia, anche anni dopo che mio fratello è andato a vivere in un'altra città, se siano loro ad aprire una porta che non riesce a stare chiusa o ad accendere e spegnere la luce di un corridoio non lo so e non me ne importa. Vivono qui, come facevano le famiglie di una volta nelle case come questa, abituati a stare assieme con la possibilità, volendo, di non vedersi mai.
Di cose strane, comunque, ne succedono. Alla fine si spiegano, la casa le spiega, ma sul momento spaventano. Una volta, per esempio, ero nello studio a scrivere. Era notte e stavo in fondo a una stanza lunga e scura, dalle pareti coperte dagli scaffali di legno di una libreria, curvo sulla tastiera di un computer scavato in una nicchia nel muro. Una lampada solo su di me, e una in fondo, a illuminare la porta. Le case respirano, lo sappiamo, fanno rumori che conosci (oddio, cosa sarà? Sarà il gatto...), ma quel rumore era diverso, era un'altra cosa. Era il rumore di qualcosa che non vuol fare rumore. Un sospiro trattenuto, un tintinnio bloccato, un passo, era qualcosa che stava dietro la mia porta chiusa, qualcosa che si avvicinava e che veniva da me. Le mie porte hanno un chiavistello a saliscendi, che in quel momento, silenziosamente, salì. Le mie porte scricchiolano quando si aprono e quella della libreria, in fondo alla stanza, nel buio, scricchiolò. Se fosse entrata una bambina vestita di bianco o una vecchia vestita di nero, giuro, sarei morto. Invece entrò una rgazza normalissima, mai vista né conosciuta, che si mise sotto il cono di luce. Mi guardò e michiamò per nome. Se avesse aggiunto "sono la morte e sono qui per te", sarei morto davvero. Invece era una lettrice che conosceva i miei, che in quel tempo non stavano lì, a casa, ma a San Marino, ma erano in giro con lei e così gli era venuto in mente di fare un salto, perché io vado a letto tardissimo, e le avevano aperto la porta, e mentre scaricavano cosa dalla macchina le avevano detto "vai pure, sta laggiù". E invece di avanzare urlando "permesso? C'è nessuno in casa?" si era avvicinata in silenzio, senza accendere la luce, nella penombra dei lampioni sulla strada, lentamente, magari anche osservando le costole dei libri, le pieghe delle tende, leggera e silenziosa come tutti gli abitanti della casa, umani o fantasmi che siano, fino a diventare lei stessa quasi un fantasma, un sussurro, un altro respiro della casa.
Carlo Lucarelli
(articolo uscito su AD 2002)


Carlo Lucarelli | Non è facile prendere appunti
06/11/2012 dal sito Dizionari Zanichelli
http://dizionari.zanichelli.it/dizionario-di-stile/2012/11/06/carlo-lucarelli-non-e-facile-prendere-appunti/

Non è facile prendere appunti, almeno per me. La difficoltà – ripeto, almeno per me – sta nel mantenere a livello di notazione quello che sboccia in testa e che vuoi semplicemente fermare per non dimenticarlo: è una suggestione, una sensazione, un pensiero, ma quando cominci a scriverlo, anche solo con un paio di parole, diventa una narrazione e in qualche modo si struttura. Un po’ come accade con i sogni, che quando cerchi di ricordarteli dopo sveglio non sono più come prima. Questo soprattutto per quelli che – come me – pensano con le parole e dentro le parole, tanto che anche adesso che ogni tanto mi capita di avere a che fare con le immagini, se devo fermare un luogo o un volto, mi viene più istintivo tirare fuori un taccuino che la macchina fotografica. Il problema è che un appunto – sempre per me – dovrebbe restare aperto per essere elaborato in un altro momento, quando si hanno a disposizione tutte le direzioni che può prendere e tutto il tempo per seguirle. E invece appena comincio a scriverlo anche solo su un taccuino ecco che si incanala su una sequenza di aggettivi, assonanze e congiunzioni la cui scelta, anche se istintiva, già prefigura una strada. Certo, sta all’esperienza e alla sensibilità dello scrittore tornare a vedere oltre quella direzione, usando l’appunto come un trampolino e non come un’uscita d’autostrada. Però – per me – non è facile. Per un po’ di tempo ho usato un escamotage grafico: disegnavo quadretti o rettangoli da cui facevo partire frecce al cui termine mettevo parole. Valeva soprattutto per il momento di riordinare gli appunti presi in ordine sparso e con vari mezzi di fortuna: sintetizzare con pochissime parole e soprattutto astrarre con la geometria mi distaccava dalle strettoie narrative che l’appunto mi avrebbe imposto. Per uno come me, che improvvisa pagina per pagina e addirittura riga per riga, che tra le due razze di narratori – Faccio la Scaletta, Non Faccio la Scaletta – appartiene decisamente alla seconda, sentirsi libero di seguire l’istinto con i suoi ritmi e le sue immagini, è essenziale. Un giorno, poi, ho avuto l’occasione di sentir parlare Roman Polanski che raccontava di come prendeva appunti e li riordinava per i suoi film: riassumeva le scene su post-it e li attaccava su una porta. Sintesi estrema e possibilità di cambiare le sequenze, perfetto (per me). Il bagno del mio studio ha una grande porta bianca e lì sopra finiscono i miei appunti, sparsi o ordinati per dimensioni e colori. Un mosaico, insomma, che cambia forma continuamente.



Carlo Lucarelli sul New Italian Epic

Un giorno ho visto una fotografia d’epoca coloniale che raffigurava insieme soldati italiani e abissini e mi sono accorto che dovevo tenere a freno il mio immaginario perché non li trasfigurasse e reinterpretasse istintivamente in Apache di Toro Seduto e giacche blu del 7º Cavalleria. Poi mi sono accorto che ne sapevo molto di più della battaglia di Little Big Horn che di quella di Adua e che avrei saputo declinare tutte le trasformazioni del generale Custer ? dall’eroe con i capelli biondi di quando ero piccolo all’assassino di bambini di Piccolo Grande Uomo ? ma che Vittorio Bottego ? con una biografia degna di un Kurtz conradiano ? restava solo una statua che dominava il piazzale in cui sono nato, a Parma. E allora mi sono chiesto perché rinunciare a tutto questo, ad un patrimonio di narrazione proiettato nel passato, nel futuro e anche in un presente da perforare con un carotaggio narrativo da pozzo petrolifero. Per questo raccolgo con entusiasmo ed enorme interesse le riflessioni dei Wu Ming sulla Nuova Epica Italiana, riconoscendomi praticamente in molte delle loro considerazioni. Praticamente, dico, nel senso di una prassi letteraria, di una ricerca fatta di libri e di romanzi che da parte mia e da quella di altri colleghi cerca di raccogliere il fascino della frontiera, della sfida con un nuovo far west. Una nuova frontiera che non è soltanto fisica (nuove ambientazioni, nuovi mondi da creare ed esplorare), e non è soltanto narrativa (nuove trame, nuove avventure, diverse tecniche di montaggio, temi ed emozioni estreme) ma è anche stilistica (parole nuove, nuove costruzioni, nuove costruzioni in quelli che i Wu Ming chiamano i romanzi mutanti). Una narrativa di ampio respiro per raccontare e interpretare il mondo, con un linguaggio nuovo e concreto, come a suo tempo fecero gli scrittori del Grande Romanzo Americano per raccontare le contraddizioni e le trasformazioni del loro paese. Anche attraverso la storia, che per noi italiani non essendo mai passata è sempre attuale e presente (mi autocito anche io con falsa modestia con la mia Ottava Vibrazione), anche attraverso la narrazione della quotidianità nascosta della camorra di Saviano, o degli italian tabloid di De Cataldo, o l’epica mutante di Wu Ming, solo per citare qualcuno. La cosa bella è che, come dice Wu Ming, tutto questo sta già accadendo da un pezzo, con tanti autori e con tanti libri che tutto questo già lo fanno in una ricerca che non si ferma a contemplarsi l’ombelico dei risultati raggiunti ma si mette in gioco ogni volta in un modo più alto e più impegnativo. Per questo, anche se le definizioni critiche non sono così importanti, quella di New Italian Epic non è un´etichetta inventata a tavolino. E’ una sfida che personalmente ho raccolto con passione. Una corsa nella prateria di un nuovo far west che si apre con possibilità entusiasmanti ed infinite. Chiamatela Nuova Epica Italiana, narrativa di ampio respiro, grande romanzo italiano, chiamatela come volete, i nomi ? ripeto ? non sono importanti. L’importante è proprio la sfida, il desiderio, per chi se la sente e ne ha voglia, di mettersi a correre verso una nuova frontiera. Concludo con una considerazione di cui magari non c’è affatto bisogno ma che io faccio lo stesso. In ogni caso chiunque è libero di scrivere quello che gli pare. Sembra una cosa ovvia, ma dal punto di vista letterario noi siamo il paese dei manifesti, del romanzo è morto, delle etichette programmatiche che spesso nascono sul nulla dalla fantasia delle redazioni culturali dei giornali o degli uffici stampa delle case editrici. Le etichette si conquistano sul campo, arrivano dopo a spiegare quello che già esiste e diventano parte integrante del suo movimento. E chiunque, dal più intimo minimalista al giallista più classico, se scrive con sincerità, è altrettanto utile e importante.