"I quaderni di PANTA - scrittura creativa" Lit. 32000 (Bompiani 1997)
a cura di Laura Lepri
Carlo Lucarelli è presente con "Trame"
sono presenti anche Alessandro Baricco, Carmen
Covito, Daniele Del Giudice, Tullio De Mauro,
Antonio Franchini, Laura Grimaldi, Dacia
Maraini, Ian McEwan, Jay McInerney, Giulio
Mozzi, Amos Oz, Enrico Palandri, Pietro Pedace,
Francesco Piccolo, Fernanda Pivano, Giuseppe
Pontiggia, Lidia Ravera, Tiziano Scarpa,
Paolo Soraci, Sandro Veronesi, Dario Voltolini

"Trame "
di Carlo Lucarelli
Spesso le trame della vita lasciano al palo
quelle della letteratura. Sono più forti,
sorprendenti, impensabili. E' successo a
Carlo Lucarelli, ingegnoso artigiano di trame
gialle e nere, al quale, tuttavia, questa
teoria dei colori del romanzo sembra molto
insufficiente, come ogni altra definizione,
del resto. Fatto sta che il suo libro, "Falange
Armata", provocò non pochi imbarazzi
alla Procura di Bologna. Lo aveva scritto
nel '93, dopo aver affiancato per molti mesi
un giornalista del "Messaggero"
che indagava per il suo giornale sugli omicidi
della Uno bianca. Anche lui seguiva la nera,
come si dice in gergo giornalistico. Insieme
avevano girato per le notti bolognesi fra
volanti, balordi, delinquenti, furti, morti
ammazzati e obitori. Si mormorava che dietro
quei delitti ci fossero dei poliziotti, ma
ancora, come si dice, la polizia brancolava
nel vuoto. Lucarelli pensò che fosse un buono
sfondo per un giallo e inventò dei poliziotti
colpevoli. Il libro uscì per una casa editrice
bolognese, la Granata Press. Mesi dopo, la
Procura prese a fare delle indagini seguendo
alcune soffiate che però ben presto si rivelarono
opera di un mitomane. Quell'uomo, in realtà,
seguiva la trama del romanzo di Lucarelli
e la raccontava alla polizia in forma di
smozzicate rivelazioni.
Nel 1994 vennero arrestati dei poliziotti.
Ma i colpevoli di "Falange armata"
erano arrivati primi.
Lucarelli sorride: "Peccato che non
mi abbiano nemmeno interrogato. Mi sarebbe
piaciuto. Ho solo avuto il telefono sottocontrollo
per un po', come tutti quelli che avevano
avuto a che fare con il caso".
Trentasettenne con lo sguardo sempre un po'
stupito, forse po' timido, come quello di
un ragazzo, Carlo Lucarelli dice di aver
cominciato la sua carriera di romanziere
come coloritore di nera per un piccolo giornale
locale.
Che significa?
Significa che quelli del "Sabato sera",
dopo aver le primo libro, Carta bianca, mi
chiamarono dicendo: "Visto che tu scrivi
gialli, cioè cose colorate, perché non vieni
a colorare í pochi fatti che avvengono a
Imola? Magari, sulla signora che cade dalle
scale, invece di una colonna, tu riesci a
scrivere mezza pagina". Insomma, dovevo
ingigantire il fatto. Di lì a poco scoppiò
il caso della Uno bianca e a quel punto c'era
poco da ingigantire. Cominciai a fare il
cronista di nera per davvero.
Continuando a scrivere i suoi libri. Fino
ad oggi ne ha scritti sette ma trova il tempo
di fare dell'altro: su Internet coordina
una rivista, canta in un complesso postpunk,
insegna scrittura creativa, scrive sceneggiature,
ha seguito il video di Vasco Rossi girato
da Roman Polanski, ha appena pubblicato Almost
blue, un bel noir dove un serial killer,
chiamato l'Iguana, è inseguito da un ragazzo
cieco e una donna poliziotto incaricata delle
indagini "un thriller nervoso e impeccabile,
una storia d'amore e di solitudine. A proposito,
noir o giallo?
Meglio noir che giallo. Ma meglio di tutto
sarebbe non definirlo affatto. Ci sono un
sacco di malintesi sul termine giallo. Quando
si pronuncia questa parola, soprattutto i
non lettori del genere pensano al giallo
classico, per cui immaginano che tu scrivi
come Agatha Christie. Se invece il lettore
è un esperto di tutte e singole sfumature,
pewnsa un'altra cosa ancora che non sono
io. Usare "giallo" è come dire
"rock" per la musica, non si specifica
niente. Noir, secondo me, vuol dire qualcosa
di più, ma è una parola che la gente non
conosce. Quando spiego che i noir sono quei
libri che "parlano della parte oscura
di noi eindagano su un mistero", mi
sento rispondere: "Ah, ho capito, scrivi
gialli, come Agatha Christie", e a quel
punto si ricomincia da capo. Allora meglio
nessuna definizione. Che cosa vuol dire letteratura
pulp, cannibale? Se va bene sono etichette
che definiscono un'altra cosa. Meglio niente.
O forse meglio una definizione un po' generica
come letteratura di tensione o, ancora meglio,
romanzi dell'inquietudine. Li chiama così
Davide Pinardi, ma credo che l'espressione
sia di Dürrenmatt. O romanzi problematici,
come quelli di Sciascia. I miei, se posso
parlare senza paura di essere frainteso,
li chiamo polizieschi perché in effetti tutti
i protagonisti dei miei romanzi sono poliziotti.
Sono romanzi di poliziotti.
Non teme che questa definizione riapra la
vecchia forbice fra letteratura maggiore
e minore, alta e bassa, d'autore e di genere?
E' una vecchia battaglia che credo sia finita,
anche se l'alone di letteratura di genere
resta sempre come una sorta di peccato originale...
Qualche lettore sprovveduto continua a dire:
"Ah, una volta ho letto un romanzo di
Agatha Christie...", qualche critico
anziano alza ancora il sopracciglio..
Ma le sue letture di formazione quali sono?
Quelle classiche: Joyce, Pavese... Però,
se dovessi indicare gli autori che non butterei
mai, direi: Nabokov, Scerbanenco, Chandler,
Ellroy, uno dei massimi. L'ultimo libro,
"I miei luoghi oscuri", è un testo
definitivo.
Entriamo nel tema del nostro incontro cominciando
con l'associare un'immagine alla parola "trama".
Visivamente la parola trama mi fa venire
in mente due cose: una ragnatela e un albero.
Anche concettualmente mi fa pensare a due
cose, una di partenza e una di arrivo. Quella
di partenza è la definizione classica, per
cui si parla di trama di fronte a una serie
di eventi scelti dal narratore e incatenati
fra loro. Una definizione, a mio avviso,
fuorviante perché la trama non è solo questo,
non è metaforizzabile solo dall'immagine
de11'albero che inizia con delle radici,
si sviluppa in un tronco e finisce con una
serie di rami: un disegno tracciato e deciso
dal narratore. La trama non è solo questo.
Perché ne esce un percorso troppo logico,
troppo razionale?
Certo, troppo logico. Infatti la vecchia
diatriba sul genere tra e chi usa la trama
e chi non la usa, è proprio questa. Chi costruisce
una trama è logico e razionale. Più narrativo,
ma meno creativo. Chi non è portato a usare
questo procedimento privilegerebbe invece
la metafora della ragnatela. la creatività,
l'attenzione ai particolari, e sarebbe meno
razionale. Come se esistesse una sorta di
antitesi. Se ci si pensa bene, non è così.
Io credo che quasi nulla sia decidibile in
anticipo. La trama è la storia così come
viene raccontata dai personaggi, non come
la pensa lo scrittore. C'è una sfumatura
di differenza tra lo scrittore che pensa
tutta la trama e lo scrittore che inventa
una piccola cosa, sceglie una situazione,
stabilisce che esistono alcuni personaggi
o concetti, e poi li guarda. I personaggi
all'interno della storia compiono azioni,
parlano, secondo una logica che è molto coerente,
se si è stati bravi ad allinearli e a pensarli,
soprattutto prima di scrivere. Una Logica
che non è quella dei fatti, ma quella del
racconto che stai ascoltando. Allora sono
loro, i personaggi, che raccontano una trama
e che si muovono al1'interno di una determinata
situazione. Sono loro che costruiscono la
trama.
Nel senso che si comportano coerentemente
con quello che sono, secondo la loro psicologia,
i fatti che li riguardano o che gli accadono...
No, perché altrimenti saremmo di nuovo prigionieri
del vecchio concetto di un comportamento
logico, consequenziale. Io penso, semplicemente,
che non sia giusto che uno scrittore si metta
ad architettare un'intera trama. Ellroy diceva:
"Su duecento pagine di romanzo, faccio
duecentocinquanta pagine di scaletta".
Non ci credo. Anche perché poi il romanzo
è la scaletta che ha scritto. Che differenza
ci sarebbe tra scrivere una trama e fare
un romanzo di getto? In realtà penso che
ascolti per duecentocinquanta pagine la storia
che gli stanno raccontando i personaggi,
la situazione, l'ambiente, tutto quello che
ha messo di fronte a sé e che sta andando
avanti per i fatti suoi.
La prima obiezione che insorge di fronte
a una visione un po' rabdomantica di una
trama che predilige la prospettiva dei personag gi, il loro punto di vista, è che, in questo
modo, quasi necessariamente sparisce il narratore
onnisciente. Tanto è vero che in "Almost
blue", vi sono tre voci narranti, due
dei personaggi, l'Iguana e il ragazzo cieco,
e una del narratore che segue l'inchiesta
insieme alla poliziotta. Adottando la sua
logica a ragnatela scompare, dunque, il narratore
che tiene le fila della trama?
Certo, il pericolo è questo. Con questa impostazione
si rischia che le cose sfuggano di mano.
Ma il narratore deve essere pronto a intervenire,
deve prendere la storia come gli è stata
raccontata e lavorarla, tagliarla, rimontarla.
E' a quel punto che servono le scalette,
e tutto quello di cui parlava Ellroy. Ovviamente
se si è narratori strettamente di genere
è più difficile lavorare in questo modo.
Però è possibile. Uno dei romanzi che ho
scritto, Indagine non autorizzata, mi era
stato richiesto con tutti gli ingredienti
del genere. I conti dovevano tornare, la
suspense doveva funzionare al momento giusto.
Il narratore a quel punto deve tornare indietro
e riscrivere la storia come gli era stata
raccontata dai personaggi, privilegiando
un solo punto di vista.
Com'è possibile ascoltare quello che ha da
raccontare un personaggio?
Ci si mette seduti al suo fianco, si prova
a dargli un carattere, si cerca di capire
come agirebbe se fosse calato in una certa
situazione.
Può fare un esempio?
Lei prima parlava dei personaggi di Almost
blue, ma devo confessare che per stare seduto
al loro fianco, per capirli, per elaborarli,
mi sono fatto aiutare dai detenuti del carcere
"Due palazzi" di Padova dove ho
tenuto delle lezioni. A loro ho portato i
miei personaggi e ho detto: "Aiutatemi,
perché io non riesco ad andare avanti".
Sapevo che c'era il ragazzo cieco esperto
di scanner, 9 scrial kifler che aveva le
allucinazioni auditive, il serial killer
che aveva le allucinazioni auditive, la ragazza
che seguiva le indagini, che si sarebbero
incontrati grazie a qualche cosa che aveva
a che fare con lo scanner e quindi con l'orecchio.
Sapevo che all'interno di questa situazione
ci sarebbe stato l'inseguimento in cui si
sviluppava la storia d'amore tra lei e il
cieco, e poi sapevo che c'era una terza parte
in cui tutto precipitava. Ero già andato
a conoscere una serie di ciechi per cercare
di costruire il carattere di un personaggio.
Per l'altro, l'Iguana, ho fatto la stessa
cosa. Sono andato da uno psichiatra e insieme
abbiamo fatto una perizia psichiatrica su
un uomo che non esiste, ma che abbiamo ipotizzato.
Io gli davo gli elementi: ha venticinque
anni, sente le voci, ha dei puntini luminosi
sulla faccia. Lui cominciava a elaborare.
Per la donna ho avuto molte difficoltà. E'
stato più difficile identificarmi. Ho rotto
le scatole a tutte le mie amiche.
In che senso è stata aiutato dai carcerati
di Padova?
Mi sono presentato loro con 1 seguente quesito:
questo è un cieco che non sa fare il cieco,
non sa toccare e forse ha cattivi rapporti
con i genitori. All'inizio doveva avere un
padre che faceva il rappresentante. A quel
punto ho chiesto ai carcerati: "Secondo
voi questo cieco può avere un padre e una
madre?". "No", mi hanno risposto
"se avesse un padre e una madre sarebbe
una famiglia normale". Bene, allora
avrebbe avuto solo un padre rappresentante.
"No", mi è stato obiettato, "se
il padre fa questo lavoro, gira tutto il
giorno e certamente gli ha messo qualcuno
che lo assista, un'assistente sociale, una
zia". Nelle scene che avevo già scritto
lui era solo, ma la porta del suo studio
si stava aprendo. Chi sarebbe entrato? "La
madre", mi rispose uno dei carcerati
e continuò: "Io vivevo con mia madre.
Mi stava addosso continuamente e io mi sentivo
ancora più solo". E' da lui che è nata
la figura del cieco che vive con una madre
iperprotettiva la cui ansia lo spinge a una
solitudine ancora più forte. Insomma la trama
si stava costruendo da sola. Ma arrivato
a un certo punto, come spesso succede nei
gialli, quella stessa trama rischiava di
scoppiare e io stavo perdendo l'orientamento.
Così ho disposto il progetto in modo tale
da non perdermi. Ho preso un foglio grande
e l'ho diviso in quadrati all'interno dei
quali inserire l'argomento e di fianco mettevo
delle frecce che andavano in una direzione
piuttosto che in un'altra...
...La supplico, mi faccia un esempio...
Un esempio? Primo capitolo e sotto: Argomento:
"Scoperta dell'omicidio", e poi
tre frecce: 1. "Sembra che sia stato
il tizio" 2. "Il proiettile non
corrisponde" 3. "Le indagini non
vanno avanti perché non gli danno l'autorizzazione".
Ognuno di questi poteva diventare un riquadro
che a sua volta poteva avere tre frecce...
Se si continua a sviluppare questo schema,
forse viene fuori la famosa scaletta di Ellroy,
ma si sta già raccontando tutto. In ogni
caso anche questa disposizione grafica non
risolveva del tutto i miei problemi.
Perché?
Perché io concepisco una trama su tre livelli:
una è la trama vera e propria, cioè tutti
gli avvenimenti che accadono e che nel romanzo
di genere diventa la trama gialla; un'altra
è una trama psicologica, emotiva e sentimentale;
la terza è la trama thriller, quel respiro
fatto di suspense, colpo di scena, svelamento
eccetera. Anche quella è una sorta di orologio.
E' impossibile farle convivere contemporaneamente.
Allora ho rubato un'altra tecnica. A Roman
Polanski. Lui fa così: attacca a a una porta
una serie di post-it con la scrittura delle
scene; poi comincia a staccarli e a riattaccarli
a seconda di come vuole montare il film.
Ho cercato di capire se si potevano isolare
le scene in blocchi cinematografici. I miei
post-it erano di tre colori diversi, a seconda
del livello di trama che volevo utilizzate:
"Il cieco parla con sua madre"
"il cieco e la ragazza s'innamorano",
"l'Iguana uccide uno studente"
post-it di situazione, di emotività e di
tensione. Dopo, e qui c'è la trama dello
scrittore, ho fatto quello che faceva Polanski:
prendere tutti questi post-it e girarli,
spostarli, montarli, come mi sembrava più
efficace e bello per la narrazione. Era un
po' come suonare la tastiera di quegli organi
a tre ordini, girando una cosa, giravano
anche le altre due...
Questo lavoro presuppone una grande familiarità
con i topoi della trama, familiarità che
sicuramente non possiede chi comincia a scrivere.
Io vorrei, invece, che tenessimo presente
un livello di esperienze minimo. Allora:
è inevitabile, sì o no, che all'inizio di
una storia ci sia un conflitto o un avvenimento
che cambia o rischia di cambiare la vita
dei personaggi, come si dice nei manuali
di scrittura creativa, non solo gialla?
Direi di no. Per rifarci ai topoi, devo ammettere
che quello che insegno a scuola è molto rubato
al cinema. In genere si pensa alla trama
come a una successione di eventi iniziali
che arrivano a uno snodo narrativo, il famoso
conflitto così che la vita del persdonaggo
verrà cambiata. E' quindi la trama, che fino
a quel momento è stata lineare, prende un'altra
piega, fino al nuovo snodo narrativo, per
cuj cambierà ancora una volta tutto.
Fino a quando non ci sarà uno scioglimento
di una qualche natura...
Sì, quello lo decide l'autore, perché se
dipendesse dai personaggi, loro continuerebbero.
In effetti si potrebbe continuare all'infinito.
Questo alternarsi di trama, snodo, trama,
snodo, può a sua volta essere spezzettato,
dentro ogni segmento narrativo, in piccole
unità di misura alimentate da tre cose: mistero,
suspense e colpo di scena. Facciamo un esempio
di trama classica: un uomo torna a casa,
suona perchè ha dimenticato le chiavi e la
moglie non gli apre, tocca la porta e questa
si apre: mistero, perchè la porta dovrebbe
essere chiusa. Entra, ma da dentro sente
lo scricchiolio di alcuni passi: suspense.
Ora c'è un rallentamento del ritmo narrativo:
passa correndo il gatto, l'uomo apre la porta
e trova la moglie morta: colpo di scena e
snodo narrativo. Arriva la polizia e trova
una cosa che non ci doveva essere: mistero.
Incolpano lui, quindi altro snodo narrativo
e così via. Questi sono tutti concetti rubati
al cinema. Non perchè la letteratura non
li possieda, solo che il cinema li semplifica
e soprattutto dimostra che funzionano. Riportati
nella letteratura corrispondono a quella
logica razionale di cui si parlava prima
e che non va seguita così pedissequamente.
In letteratura può non accadere che si debbano
seguire.
Come si costruisce una tensione narrativa?
Disseminando indizi, come avviene anche in
trame "normali", non gialle o noir,
ma attraversate da segnali più o meno sotterranei,
da tracce che chiamano il lettore a un'attenzione
maggiore?
Insieme ad alcuni giallisti abbiamo fatto
una serie di studi a qesto proposito. Studiavamo
il thriller, ma era un concetto utile anche
in altre circostanze. Ci siamo rifatti a
due vecchie concezioni. Una è quella di Hitchcock:
sta per succedere qualcosa che io so e tu
- personaggio - non sai. Ma l'abbiamo eliminata
subito perchè abbiamo visto un sacco di film
di tensione in cui questo meccanismo non
c'era. Allora ci siamo rifatti all'altra:
la tensione è il rallentamento del rito narrativo
che ti mantiene in sospensione rallentando.
E abbiamo scoperto che non è vero neanche
questo. Così potrebbe fare Henry James in
"Giro di vite" che rimanda all'indomani
il racconto di una storia di fantasmi. Poi
però ho letto "Lezioni notturne"
di Stefano Massaron una raccolta di racconti
in cui ce n'era uno che si chiamava "Conto
alla rovescia". Due ragazzini escono
dalla metropolitana e l'autore ci avverte
che fra dieci minuti saranno morti. Questo
è il primo snodo, insieme alla prima dichiarazione
d'intenti dell'autore. E poi comincia con
il conto alla rovescia in cui avverte: 9
minuti, loro fanno un sacco di cose belle;
8 minuti, parlano tra loro con tenerezza...
e inizia a dare un ritmo sempre più serrato
alle azioni, sempre più veloci. Anche i paragrafi
lo sono, graficamente, fino ad arrivare,
sempre più serrati verso la conclusione:
meno 5, 4, 3, 2, 1... fino al momento in
cui quei ragazzi attraversano la strada,
vedono i fari di una macchina per pochi secondi.
Insomma, c'era stata un'accelerazione. La
tensione è data da una variazione del ritmo
narrativo. Quando si comincia a raccontare
una storia e si accelera o rallenta, si ottiene
un effetto di tensione. variazione del ritmo.
Il che da solo ovviamente non basta... Dipende
anche dall'atmosfera in cui io calo questo
tipo di azione "meccanica" - un
tempo della tensione è la notte ad esempio
-, e da quello che voglio raccontare. Naturalmente,
se il racconto è brutto, questo espediente,
che può essere anche molto facile, non serve
a nulla.
Pensa che corrisponda a verità quello che
si dice rispetto al nostro bisogno primario,
atavico, di storie, di trame?
Sì, è uno degli istinti primordiali. Io so
che da piccolo ascoltavo le storie e che
se ho cominciato a scrivere è perché non
potevo giocare più ai soldatini, e alla TV
non davano quello che volevo vedere. A quel
punto - a dodici anni - le storie o te le
disegni, o le scrivi. E se ti metti a raccontare
qualcosa a qualcuno prima o poi si ferma
e ascolta. Direi che un buon modo per educare
i ragazzini alla lettura è quello di mettersi
a raccontargli la trama di un libro. In due
minuti si ottiene la loro attenzione. Baricco
in televisione faceva questo. Una volta andai
in una scuola a Padova a presentare il mio
libro, o almeno, io credevo che fosse per
quello: ma, all'ultimo momento, avevano cambiato
programma. Stavano inaugurando la biblioteca
e io dovevo invogliare gli alunni a leggere.
Mi venne in mente Baricco, il suo programma
televisivo, e il meccanismo della suspense.
E dissi a quei ragazzi: "Io vi racconto
l'inizio di un libro. Se vi interessa andiamo
avanti, se no lasciamo perdere e passiamo
a un altro". Miracolo. Rimasero oltre
un quarto d'ora dopo la campanella della
quinta ora! Anche a questi ragazzini che
odiano tutto e non leggono niente, piace
sentirsi raccontare una storia.
Prima ha citato i pulpisti alcuni dei quali,
penso ad Aldo Nove, hanno preso il modello
televisivo, soprattutto quello pubblicitario,
come struttura da imitare in modalità e respiri
narrativi. Racconti di inquietante sociologia,
più che di narrazione. E inevitabilmente
corti, veloci, poco narrativi, appunto. Lei
pensa che la televisione aiuti a raccontare
delle storie?
Poco. Anche se ne ha raccontate di bellissime
nel periodo degli sceneggiati: "L'isola
del tesoro", "Il segno del comando".
Ma avevano un altro ritmo che non è quello
della TV. La TV racconta delle storie suo
malgrado, il suo linguaggio non è quello
delle storie. Iva Zanicchi racconta storie
trash, ma sono narrazioni involontarie, turpi.
Ha fatto una buona cosa Nove a scrivere racconti
sulla televisione che hanno fotografato un
momento particolare del linguaggio televisivo.
Ma la televisione non può raccontare delle storie. Ha zavorre extralinguistiche
- interessi diproduzioni, paura di perdere
pubblico - che la bloccano. Una storia forte
non potrebbe essere raccontata. Non potrebbero
esserci serial killer né, tanto meno, carabinieri
corrotti. Telefono giallo, parlo da giallista,
è stato un bel modo di raccontare storie.
Chi l'ha visto? era un po' più bieco, ma
ha raccontato storie che potevano diventare
romanzi.
Certo, però come se le raccontasse al grado
zero, mentre potrebbe farlo in un altro modo.
Potrebbe farlo con la finzione vera, mentre
così siamo solo aggrediti dalla primarietà
della storia e non abbiamo alcuna educazione
alla narrazione.
Infatti la Tv riesce a raccontare delle storie,
finché non si accorge che lo sta facendo.
A quel punto le rovina.
P.S. Sto lavorando sull'intervista a Lucarelli.
E' domenica mattina 31 agosto. Ore otto.
Edizione straordinaria del telegiornale.
Parigi. Lady Diana si è schiantata sulla
macchina dell'amante arabo per sfuggire alla
sua immagine pubblica. Quale romanziere potrebbe
raccontare quella storia? 0 forse può raccontarla
solo la televisione, una trama così trash
e drammatica? Una trama della vita?
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