"Portavo una testa di morto" in Mordi e fuggi (Manni editore, 2007)
pag. 192 - euro 14.00 - ISBN 9788881769360
16 racconti per evadere dalla taranta

Introduzione di Marino Niola

Racconti di: Cosimo Argentina, Andrea Bajani, Giovanna Bandini, Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Teresa De Sio, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Carlo Lucarelli, Gianluca Morozzi, Antonio Pascale, Aurelio Picca, Laura Pugno, Livio Romano, Grazia Verasani.

Il mito della taranta dato in pasto alla penna di 16 giovani scrittori e di un antropologo. Racconti dissacranti, psichedelici, acidi, ironici, divertenti che parlano di una tradizione vera, viva..
A oltre sessanta anni dagli studi antropologici di Ernesto De Martino sul tarantismo, il mito legato al morso della taranta è attuale più che mai, tanto da spingere ogni anno nel Salento decine di migliaia di persone da tutto il mondo.
16 scrittori raccontano la magia che ancora oggi si respira in questa regione durante le sere ipnotizzate dal suono del tamburello, al ritmo incessante e psichedelico della pizzica.



da La tarantola, di Mimmo Grasso (pubblicato sul sito francarame.it
francarame.it/it/node/628:

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Portavo una testa di morto (Carlo Lucarelli)

La storia è questa: siamo sul finire della seconda guerra mondiale, nel Salento. Il narratore è un soldato che ricorda un orribile episodio, in “preda al rimorso” . Un gruppo di miliziani delle SS , tra cui un mongolo, si ferma a un casolare e, dopo aver saccheggiato , imbottiti di vino, costringono la famiglia che l’abitava a suonare. Si intona una pizzica che il soldato, componente della squadraccia, riconosce. Esige che una ragazza, giovanissima, danzi. Alla fine della danza il mongolo sgozza la fanciulla. La casa viene bruciata. Il narratore portava sul cappello di SS l’emblema di un teschio.

Questo racconto è il più breve della raccolta ma anche il più lungo. E’ breve in ordine alla sinteticità e asetticità dei fatti narrati; è lungo in ordine alle cose implicite.
Lo spazio dove si svolge il racconto è una terra i cui abitanti hanno radici culturali greche. Il tempo degli avvenimenti è quello della seconda guerra mondiale. Le SS bevono molto vino dopo essersi sedute sotto un albero di ulivo. Si prepara in questo modo la scena del delitto. Dal punto di vista simbolico, l’inserimento della catena grecità-guerra (intesa come orgia di distruzione)-vino-ulivo prepara,invece , la scena del sacrificio. Quasi di soppiatto appaiono anche altri elementi rituali: il pane, il coltello che il mongolo usava per scannare gli agnelli. Va annotato che il mongolo è l’unico del gruppo a non avere sul berretto il fregio di un teschio ed è l’ uomo che materialmente compie il delitto-sacrificio. Va altresì evidenziato che il soldato che ricorda è una persona molto colta: già era stato nel Salento anni prima per approfondire studi di storia dell’arte. Dunque, quello che accadrà appartiene a una dimensione al di là della cultura, ancestrale, da periodo paleolitico, quando gli uomini avevano i tratti somatici mongoli, quando a Delfi si sacrificavano persone poi sostituite, come nel dionisismo, da una persona con malformazioni (il fàrmakon) e, dopo ancora, da un animale. Non è, ovviamente, che si sia proceduto a sostituire la persona normale con quella deforme e poi con l’animale per motivi pietistici o etici. Il processo è avvenuto perché ci si è resi conto, sulla base di nuove analogie, che il modo più coerente di sacrificio a deità terribili era quello dell’animale a sua volta rappresentativo dell’ antenato teriomorfo.
Le relazioni coltello-per-gli-agnelli e sgozzare-la-fanciulla-come-un agnello, il vino, la musica, sono precisamente gli ingredienti del rito arcaico.
Mi sono chiesto a lungo perché Lucarelli avesse inserito un mongolo nel suo racconto e perché questo mongolo uccide materialmente la fanciulla. Ho pensato, ovviamente, al mongolo come a qualcosa di lontano, abissale sia geograficamente che inconsciamente. Ma questo non spiega il perché sia proprio lui il boia. Ho supposto che l’uccisione, lo sporcarsi le mani sia stato delegato a un essere ritenuto inferiore dal nazismo. Ma neanche regge se penso a quello che hanno fatto i nazisti. L’unico a non portare sul berretto il teschio –mi sono detto- è lui perché è sufficiente, per rappresentare la morte, la sua testa (l’iconografia ci presenta i mongoli calvi, ossuti) ma anche questa ipotesi mi sembrava debole. La soluzione me l’ha fatta vedere Antonio Vitolo parlando dell’etimo di “tarantola”, che deriva da Taras, fondatore di Taranto e che “taras” significa “sconosciuto”. Da qui a Taras Bul ba di Gogol’ il passo è molto breve. Sarei comunque molto interessato a sapere dalla testimonianza diretta di Lucarelli la funzione di questo mongolo nel suo racconto.
La fanciulla è terrorizzata dal fregio sulla bustina del militare. Anche gli altri tre tedeschi lo portano ma è di quello del narratore che la fanciulla ha terrore perché è stato il primo che ha visto quando i soldati hanno fatto irruzione nella casa dove dormiva ( portando fiaccole come nei riti arcaici). Si tratta, anche qui, di un’apparizione infernale e demoniaca, come se la ragazza avesse visto materializzarsi l’incubo delle proprie origini, dei racconti intorno al fuoco, come se la tarantola avesse assunto sembianze umane, confermando clamorosamente le dicerie sottovoce delle anziane del paese.

E’ chiaro che la fanciulla che danza è Proserpina e il soldato è Ade.
Lucarelli propone, dunque, una storia narrata come un resoconto di cronaca e lo stile molto distaccato del narratore finisce per essere inquietante.
La vittima sembra consapevole di partecipare a un rito forse anche atteso. Dimentica, nel ricordo del narratore, la situazione, la musica, la sua uccisione e, per questo, sopravvive. O, davanti alla visione della morte, sa che per cacciarla via occorre danzare, eseguire l’esorcismo musicale e coreutico, ed è forse sicura che ciò che vede non esiste, che è in uno stato di sonno, che si risveglierà come si risveglia la terra.
Lucarelli non ci dice se dopo la morte della fanciulla la terra abbia continuato a produrre frutti.
Da dove traiamo questi elementi di lettura? Non è che ci stiamo inventando tutto? Il soldato “porta” una testa di morte. Che si tratti di un’icona cucita sul berretto lo apprendiamo durante la narrazione. Astutamente, Lucarelli , scegliendo questo titolo, ci dà a intendere, all’inizio, che c’è qualcuno che cammina con una testa di morto sotto il braccio, una specie di Amleto. Durante la narrazione l’ambiguità del titolo viene svelata e, paradossalmente, ci accorgiamo che veramente il soldato porta una testa di morto. Solo che ce l’ha sul collo ed è la sua, quella di migliaia di anni fa, perché
nell’evento salentino rimosso per decenni e ora riemerso si catapultano tutte insieme le dinamiche di attrazione-repulsione per il sangue che provava la muta di cacciatori poi diventati soldati.
“Testa di morto” è anche il nome di una farfalla ( è lui l’insetto del racconto) e si sa che la farfalla rinvia alla metempsicosi sia pitagorica che eleusina (Eleusi era sacra a Demetra, madre di Persefone).Questa farfalla si chiama così perché sul dorso ha disegni che ricordano alla nostra percezione un teschio. I suoi predatori vedono probabilmente un ragno e su questo doppio simbolismo (farfalla-ragno) c’è da interrogarsi trasferendolo ai personaggi che in tal modo interpretano un ruolo ineluttabile o, addirittura, indecidibile. Questo insetto appartiene alla famiglia delle Sphingidae e il suo nome scientifico è Acherontia Atropos. Dunque non c’è solo la lontananza simbolica della Mongolia ma anche quella dell’Egitto e la vicinissima Grecia dionisiaca, c’è l’Acheronte e il flusso musicale è precisamente l’acqua che il soldato-Caronte fa attraversare alla fanciulla-Euridice. Non è allora un “insetto” (in-secare: gli strati del racconto sono di Lucarelli sono “intersecati”) che viene da lontano: ci è laterale, ci è vicinissimo, a meno di un palmo ma non possiamo toccarlo: è la nostra psiche.
Va infine annotato che “Testa di morto” in lingua tedesca è totenkopf , nome della più bestiale divisione delle waffen SS., il cui segno, lo svastica o croce uncinata, ha radici altrettanto arcaiche quanto la sfinge.
La fanciulla danza davanti alla morte una danza macabra, una di quelle danze, cioè, in cui nel medioevo si raffiguravano tutti i ceti sociali danzanti con scheletri, specialmente dopo la peste del 1348. Sarebbe molto stimolante immaginare la storia dal punto di vista della vittima più che del carnefice. Scopriremmo forse che la falena che danza è la fanciulla, attratta dalla luce della morte.