"Portami via" di Carlo Lucarelli viene pubblicato in "Resistenza 60 " € 12,00 (Fernandel 2005)


Nel 2005 si celebra il sessantesimo anniversario della caduta del nazifascismo e della fine della Seconda guerra mondiale. Resistenza 60 è un’antologia in cui scrittori di diverse generazioni – ma tutti nati dopo il 1945 – si confrontano con il concetto di Resistenza. L’obiettivo è proprio quello di stabilire se per questi autori la Resistenza rappresenti ancora un valore oppure no, e se questo valore sia rimasto sostanzialmente invariato nei sessant’anni appena trascorsi oppure se sia cambiato, modificandosi con i cambiamenti sociali che sono avvenuti nel nostro paese.
Per questo abbiamo chiesto a sedici scrittori di raccontare l’attualità degli ideali della Resistenza, e di farlo ambientando i racconti nel presente storico, per evitare facili ricostruzioni storiche che porterebbero l’antologia in un ambito poco fernandelliano.
Certamente un libro “politico”, ma non un testo tranquillizzante in cui gli autori in coro esaltano l’importanza delle lotte di liberazione; piuttosto un libro da cui emergono punti di vista anche incompatibili l’un con l’altro, a significare che la Resistenza, nonostante le polemiche mai sopite, non è ancora un movimento concluso, archiviato, consegnato definitivamente ad una dimensione storica.


Gli autori

Marco Aliprandini (Elia Verani. Frammenti di un manoscritto, Provinz Verlag), Vanessa Ambrosecchio (Cico c’è, Einaudi) Davide Bregola (Racconti felici, Sironi), Massimo Cacciapuoti (L’ubbidienza, Rizzoli), Giuseppe Caliceti (Il busto di Lenin, Sironi), Gianluca Di Dio (L’Emiliano innamorato, Fernandel), Michele Governatori (Il paese delle cicogne, Foschi), Carlo Lucarelli (La mattanza, Einaudi), Gianluca Morozzi (Blackout, Guanda), Francesco Pacifico (Il caso Vittorio, minimum fax), Piersandro Pallavicini (Madre nostra che sarai nei cieli, Feltrinelli), Elio Paoloni (Piramidi, Sironi), Francesco Permunian (Nel paese delle ceneri, Rizzoli), Laura Pugno (Sleepwalking, Sironi), Michele Rossi (Nuda, Pequod), Pietro Spirito (Speravamo di più, Guanda).



PORTAMI VIA
Carlo Lucarelli

Cominciò tutto con un manifesto.

Poco più di una locandina, in bianco e nero, che annunciava un convegno sugli orrori della Resistenza. Proprio così si intitolava, “Gli Orrori della Resistenza”, promosso da un’associazione e patrocinato dal comune. Dopo dissero che si erano sbagliati, che la tipografia aveva fatto male il lucido, che ci doveva essere scritto “Gli Errori della Resistenza”, ma che ormai non potevano più ritirarli perché avevano già speso tutti i soldi. Il sindaco aveva detto al Carlino che si scusava con chi poteva essere rimasto offeso e che comunque, a spaccare il capello, di orrori, nella resistenza, ce n’erano stati.

Adelmo aveva fatto un casino. Aveva attaccato un volantino alla bacheca dell’Anpi, aveva scritto una lettera all’Unità e al Resto del Carlino, e aveva chiesto ai consiglieri d’opposizione di fare qualcosa in consiglio Comunale. Due li aveva trovati un po’ freddi, va be’, certo che è grave, però c’è di peggio e poi ormai è fata, andiamo avanti; uno, Alberto, quello del centro sociale, era abbastanza incazzato ma anche molto rassegnato, che ci vuoi fare, hanno la maggioranza loro, lo sai come finisce, no?. Comunque, almeno lui al picchetto a dare i volantini davanti al teatro c’era venuto. Erano in sei, Adelmo, Alberto, due del centro sociale, Marione, detto “Mingo” quando era nei Gap e Lorenzini, fratello di quello che era stato fucilato dai tedeschi. Sei su una popolazione di mille abitanti, più del cinque per cento, aveva detto Alberto, non è poi così male. Adelmo non aveva commentato. Si era consolato col fatto che dentro al teatro erano undici. Il sindaco, cinque del consiglio comunale, il relatore, e tre ragazzi di Bologna.

Poi c’era stata la polemica sul 25 aprile. Il sindaco aveva accampato motivi di salute e non era venuto. Il vicesindaco era venuto ma non aveva detto una parola. Il prete aveva benedetto il monumento ai caduti della Resistenza e in cinque minuti era finito tutto, anche perché pioveva. In tutto, compresi i due di Ravenna che venivano tutti gli anni, erano in quindici. Quelli di Ravenna di solito erano tre, ma uno quell’anno era morto.

E alla fine c’era stato il fatto della strada.

Adelmo lo aveva saputo da Alberto. Volevano fare una delibera per intestare una strada a Larvatelli. Volevano gli altri, naturalmente.

«A Larvatelli?» Adelmo l’aveva soffiato con un filo di voce e quando aveva cercato di ripeterlo gli era sfuggito un ringhio, duro e roco come una specie di rutto.

«A Larvatelli? A quel… quel… quel maiale di Larvatelli?»

Pio Larvatelli era stato nella Brigata Nera di Bologna, durante la guerra. Un giorno erano arrivati in paese per un rastrellamento e si erano scontrati con un distaccamento della 36° Garibaldi di passaggio. Tre morti nella Brigata. Erano tornati il giorno dopo e si erano portati via due uomini e una ragazza, gli unici rimasti in paese, perché gli altri erano già scappati tutti. Ma i due uomini erano malati e Maria, la ragazza, stava con loro perché era la sorella di uno dei due. I due uomini li avevano impiccati a Bologna. La ragazza era riuscita a saltare giù dal camion e a correre via per la campagna, ma le avevano sparato. Era stato Larvatelli, che era saltato giù anche lui, le era corso dietro e ad un certo punto si era fermato per prendere la mira e spararle nella schiena. Poi era tornato al camion, perché l’aveva presa, quello sì, ma non era caduta, si era infilata nel bosco e laggiù era meglio non andarci. La Maria era morta nel bosco, tra le braccia di Adelmo. Lui, Mingo e quelli del suo Gap l’avevano trovata praticamente dissanguata, ma aveva ancora abbastanza fiato per raccontargli quello che era successo. La Brigata Nera. Larvatelli.

E Larvatelli era uno del paese anche lui.

Adelmo fece un casino. Corse in comune ma il sindaco si fece negare, e allora lo aspettò al varco, al bar, e quando lo vide entrare praticamente gli saltò addosso. Il sindaco cincischiò, traccheggiò, quasi negò, non c’era nessun progetto su Pio Larvatelli, che comunque dopo la guerra era stato amnistiato, e che ormai sarebbe ora di parlare di riconciliazione, e se proprio vogliamo vedere tutti quelli che hanno avuto dei problemi allora non è che stiano tutti da una parte sola. Adelmo strinse i pugni, prese fiato, e come già aveva fatto un milione di volte, di cui almeno cinquecentomila col sindaco, ripeté che le guerre non finiscono di colpo solo perché qualcuno lo dice, che gli odî fanno fatica a spegnersi e che la gente incazzata nera per quello che gli hanno fatto può anche lasciarsi andare ad atti di violenza. Disse vendetta, ed era una parola che non aveva mai usato prima. Disse anche per quanto condannabili. Disse anche errori. Ma programmare l’omicidio a freddo come componente della propria ideologia, assieme alla supremazia della razza e alla negazione della libertà, bè, quello è un’altra cosa. Usò anche un paragone che aveva letto sul giornale, che parlare di riconciliazione senza che una parte si assuma la responsabilità dei propri errori sarebbe come proporre una celebrazione dei morti dell’11 settembre, includendo tra le vittime anche i dirottatori degli aerei. E poi vediamo se gli americani non si incazzano.
(continua)